La Banca d’Italia, nella sua relazione annuale, ha tratto alcune considerazioni – corredate dei dati trasmessi dall’Inps – sul “primo tempo” del reddito di cittadinanza (RdC) ovvero quello dell’erogazione della prestazione. Poche ore prima alcuni talk show televisivi avevano intervistato degli imprenditori, specie del settore turistico, che confermavano, sulla base della loro esperienza, proprio quanto l’Istituto di via Nazionale stava per certificare nella consueta data del 31 maggio. In sostanza l’entità del sussidio può scoraggiare la ricerca di lavoro per due ordini di motivazioni. In primo luogo (ed è quanto lamentavano gli imprenditori intervistati), la «generosità» dell’integrazione al reddito, che può raggiungere i 780 euro mensili per un single in affitto e diminuisce all’aumentare del reddito da lavoro, «potrà scoraggiare l’accettazione o la prosecuzione di rapporti di lavoro precari e non particolarmente remunerativi». Soprattutto per quei segmenti con prospettive occupazionali già limitate (giovani, con impieghi precari e nel Mezzogiorno). La seconda criticità riguarda la struttura del sussidio che «potrebbe favorire forme di lavoro irregolare, se le misure sanzionatorie previste dalla legge trovassero difficile applicazione».
La prassi ha poi registrato – aggiungiamo noi – un altro fenomeno. Alcuni aventi diritto – in particolare quelli che non hanno presentato domanda o che si aggirano per gli uffici a chiedere istruzioni per rinunciare all’assegno – preferiscono tirare avanti con il consueto tran tran, quando l’ammontare dell’assegno è modesto, piuttosto che sottoporsi alle condizioni previste per continuare a percepire il RdC (corsi di formazione, lavori socialmente utili, laboriose documentazioni, ecc.). Come se volessero far capire che il gioco non vale la candela.
La relazione, poi, si sofferma su di un ulteriore aspetto critico, evidenziato come tale fin dall’inizio del dibattito. Non funziona neppure l’incentivo alle imprese, sotto forma di uno sgravio contributivo che va da un minimo di 5 a un massimo di 18 mensilità dell’importo del Rdc, perché è condizionato al rispetto di requisiti «particolarmente stringenti» (incremento occupazionale netto, assunzione a tempo indeterminato full time) che «potrebbero ridurne l’efficacia». Peraltro, i profili per i quali le imprese incontrano maggiori difficoltà di reclutamento sono quelli tecnico-specialistico e manageriale, meno presenti tra i potenziali percettori del Reddito di cittadinanza. Si riscontra in questi casi un limite “ideologico” della norma nel voler imporre l’assunzione stabile per una persona che non è un disoccupato temporaneo, con un’esperienza lavorativa alle spalle, ma potrebbe essere un soggetto – anche di un’età matura – che fino a quel momento è rimasto escluso da un mercato del lavoro organizzato e che non è in grado di recuperare l’handicap attraverso la formazione assicurata dal Cpi e l’assistenza del navigator.
Emerge con evidenza il limite più importante del nuovo istituto: quello di tenere insieme l’inclusione sociale attraverso un sollievo alla condizione di povertà assoluta con le politiche attive del lavoro presso enti preposti che, allo stato, intermediano soltanto poco più del 2% di assunzioni. Va detto che Anpal servizi ha compiuto un lavoro importante. Sono già stati selezionati, regione per regione, ognuno col relativo punteggio di base, gli aspiranti al concorso per il posto di navigator che si svolgerà a partire dal 19 giugno. Ma è sufficiente acquisire un titolo, sulla base di un’affrettata preparazione teorica, per poter svolgere uno dei lavori più complicati che esistano?
Leggendo la relazione si trova un altro spunto che concorre a spiegare il numero un po’ deludente delle domande presentate. Dove sono finiti quei 5 milioni di poveri che si volevano tutelare? A parte i criteri con cui l’Istituto di statistica misura i fenomeni sociali (attraverso campionature), c’è da individuare la sostanziale differenza tra i residenti e i cittadini. Quando nella comunicazione si parla di 5 milioni di persone in condizione di povertà assoluta si lascia intendere che si tratta di italiani sofferenti per le “sciagurate politiche di austerità” fatte dai governi precedenti (diciamoci la verità: politiche vere di austerità da noi non le ha mai fatte nessuno, tranne forse il governo Monti con l’acqua alla gola). Il fatto è che nei 5 milioni fatidici ci stanno anche gli stranieri e le loro famiglie, che, come è comprensibile, stentano a mettere assieme il requisito richiesto di 10 anni di residenza nel territorio per poter accedere al RdC.
A questo proposito l’autorevole Centro Studi di Itinerari previdenziali ha voluto ricordare a noi tutti come stanno le cose. «Volendo comunque utilizzare i dati Istat ufficiali si scopre che l’incidenza della povertà si attesta su valori molto elevati in particolare tra le famiglie con componenti stranieri: nel 2017 circa il 30% delle famiglie composte da soli stranieri era in condizione di povertà assoluta (percentuale 6 volte superiore a quella degli italiani), con punte che superavano il 40% nel Mezzogiorno)». Questa valutazione viene, poi, sottoposta a una sorta di prova del nove da parte del Centro Studi stesso. Se, nel 2017, le persone in povertà assoluta erano l’8,4% della popolazione, nel 2007 (ovvero prima della Grande Crisi) la percentuale era di poco superiore al 3%. Indubbiamente la crisi ha svolto un ruolo determinante nel peggiorare la condizione di vita di tante persone e famiglie, ma nel decennio considerato è avvenuto un altro cambiamento importante: gli stranieri sono passati da 3 milioni a 5 milioni. E , nonostante ciò che pensa Salvini, la “pacchia” che hanno trovato in Italia non è stata poi un granché. Tanto che molti di loro si sono limitati a incrementare i ranghi della povertà assoluta.