Il disegno di Legge di bilancio dedica un pacchetto di norme a un riordino del Reddito di cittadinanza (Rdc). Il tema era oggetto di conflittualità all’interno della maggioranza, soprattutto tra i partiti che col Governo Conte-1 si erano divise la bandierine; quota 100 e dintorni la Lega, il RdC il M5S. Ora alla stregua di ex coniugi in polemica tra di loro – pur facendo parte della medesima coalizione – si rinfacciano l’uno il trofeo dell’altro.
Matteo Renzi aveva addirittura minacciato di raccogliere le firme per un referendum abrogativo, si cui si è persa ogni notizia. Inoltre, con un bel po’ di nonchalance il Governo aveva recentemente implementato di un miliardo il finanziamento per assicurare la copertura necessaria e costringere l’Inps – come stabilisce la legge – a ridurre le prestazioni erogate.
Le misure inserite nel ddl di bilancio sono senz’altro utili e affrontano problemi reali, riconducibili – come vedremo – a una migliore gestione della situazione vigente piuttosto che intraprendere un percorso di riforma che dovrebbe essere affidato alle missioni del lavoro (con relative risorse) previste nel Pnrr. Innanzitutto migliorano i controlli contro gli abusi e le truffe. Verranno compiuti ex ante. Qualcuno potrebbe chiedere: ma non dovrebbe essere sempre così? Errato: nel 2019, dopo il varo della legge, l’Inps ricevette l’ordine in sede politica di non fare delle storie e guastare la festa per la sconfitta della povertà. Saranno ridefiniti i parametri a favore delle famiglie più numerose; sarà riconsiderata la possibilità di cumulo tra il RdC e un reddito da lavoro perché con la normativa attuale incentiva nei fatti il lavoro nero; sarà previsto un decalage più rigoroso nel caso di rifiuto di un’offerta di lavoro.
Ma sono questi i limiti genetici che non hanno consentito al RdC di realizzare gli obiettivi per i quali era stato istituito? Mentre il RdC ha funzionato (sia pure a macchie di leopardo) nel caso di coloro che non sono spendibili nel mercato del lavoro e, quindi, vengono presi in carico dai servizi sociali dei Comuni, sulla base di un patto di inclusione sociale (alla stregua del ReI), per la restante parte, rivolta a chi sia profilato come potenzialmente occupabile, il Rdc come strumento per reperire lavoro ha fallito. E non si può dare la responsabilità di questo clamoroso insuccesso solo ai Cpi, ai navigator e agli effetti dell’emergenza sanitaria (che pure hanno pesato, visto che il divieto di licenziamento ha bloccato le assunzioni).
Le ragioni, pur essendo facilmente prevedibili sin dall’inizio, sono oggi meglio comprensibili dai dati mostrati dall’Inps nel suo rapporto annuale. I nuclei familiari beneficiari sono 1,6 milioni per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. Ma, proprio perché come rilevato prima le platee sono disomogenee, la ricerca attiva di lavoro di fatto non riguarda quasi i tre quarti dei beneficiari. Infatti, si stima – ha rilevato Luigi Olivieri in un articolo su Il Foglio – che nei nuclei beneficiari siano presenti 1.350 minori, che ovviamente non sono occupabili, né tenuti alla ricerca attiva di lavoro. Altri 450mila beneficiari sono disabili. Nessuno tra questi è obbligato a cercare occupazione attraverso il Rdc: alcuni perché, se idonei al lavoro, seguono le regole dell’inserimento lavorativo mirato previste dalle norme del collocamento obbligatorio; gli altri, perché la loro condizione di disabilità non consente di svolgere attività lavorativa.
Restano quindi 1,9 milioni di beneficiari: circa la metà è proprio la platea profilata come lontana dal mercato del lavoro, della quale debbono curarsi i servizi sociali dei Comuni. I beneficiari profilati come potenzialmente avviabili al lavoro, nella realtà, sono a loro volta ben lontani da una loro immediata spendibilità. Come ha certificato l’Inps due terzi dei beneficiari nel 2018/19 erano totalmente estranei al mercato del lavoro e non avevano mai lavorato. Ma, non basta: l’Anpal, nella nota periodica sul RdC dell’aprile 2021, ha segnalato che oltre il 72% dei beneficiari a livello nazionale presenta un titolo di istruzione di livello non superiore all’istruzione secondaria di primo grado (la terza media) e solo il 2,7% dell’utenza ha un titolo post diploma. Avviare alle imprese persone senza alcuna esperienza lavorativa e con un tasso di formazione e scolarizzazione oggettivamente molto basso è, dunque, non tanto impossibile, quanto velleitario.
È allora necessario riordinare il sistema. Tornare all’idea del Reddito di inclusione (Rei) per la platea di persone che mostra solo necessità di inclusione sociale e di sostegno al reddito. E nello stesso tempo occorre avviare i disoccupati con esperienza lavorativa e i soggetti effettivamente occupabili lungo un percorso di ricollocazione finanziato in quanto tale (assegno di ricollocazione, riconversione professionale, formazione e sostegno della mobilità). È questa la via da seguire come viene indicato anche dal Pnrr con un adeguato e specifico finanziamento. “Centrali sono le politiche attive del lavoro – disse Mario Draghi nel discorso del 17 febbraio sulla fiducia -. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati”. Restiamo in fiduciosa attesa.
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