Il nostro è un Paese veramente singolare. Nella giornata di ieri l’Istat ha comunicato i dati definitivi sull’andamento della povertà delle famiglie residenti in Italia nel corso del 2020, che confermano quelli già anticipati nel mese di febbraio u.s., con un aumento del numero delle famiglie in condizioni di povertà assoluta (da 1,7 milioni a poco più di 2 milioni) e delle persone appartenenti a questi nuclei (da 4,6 milioni a 5,6 milioni).



Nella stessa giornata il nostro ministro del Lavoro Andrea Orlando, pur confermando la necessità di apportare alcuni correttivi alle fallimentari politiche attive del lavoro previste per i beneficiari del Reddito di cittadinanza (Rdc), ha elogiato la sua efficacia sul versante del contrasto della povertà assoluta. Una conferma già sostanziata dall’ampliamento dei finanziamenti previsti per il Rdc e per il Reddito di emergenza, che lo ha accompagnato nel corso della pandemia Covid con un allargamento della platea dei beneficiari.



Eppure l’evidenza del milione di poveri in più, dopo aver speso 14 miliardi di euro per distribuire le risorse a 2 milioni di famiglie e 4,4 milioni di persone (dati provenienti dal monitoraggio effettuato dall’Inps sugli esiti delle domande Rdc/Rem nel corso del 2020), avrebbe meritato qualche approfondimento ulteriore. 

In assenza di un riscontro più approfondito delle nostre autorità, ci siamo permessi di fare un raffronto tra le analisi operate dall’Istituto nazionale di statistica sulle caratteristiche delle persone povere e sulla distribuzione territoriale della povertà assoluta, con quelle comunicate dall’Inps sulla natura dei beneficiari e abbiamo ricevuto la conferma che il fallimento del Reddito di cittadinanza non è sostanziato dalla parte residuale rappresentata dalle politiche attive del lavoro, ma riguarda l’intero impianto del provvedimento varato due anni fa dal Governo giallo-verde.



Il dubbio era sorto sin dall’origine. Distribuire i sussidi in fretta e furia sulla base delle dichiarazioni Isee sul reddito e sul patrimonio autocertificate dagli interessati, in un Paese dove oltre il 40% dei contribuenti non paga un euro all’erario, non depone bene. A chiarire questi dubbi, dato l’ampio utilizzo che dell’Isee viene fatto da parte delle amministrazioni pubbliche per erogare benefici in favore dei ceti meno abbienti, potevano bastare gli esiti delle indagini campione operate dalla Guardia di finanza, secondo la quale il 70% di queste dichiarazioni non risultava attendibile . 

Entrando nel merito, ci siamo accorti che nella indagine dell’Istat il 48%, pari a circa 2,6 milioni delle persone in condizioni di povertà, risultava residente nelle regioni del nord Italia, ma che tra queste solo 820 mila hanno potuto beneficiare del Reddito di cittadinanza. All’opposto il 58% delle domande accolte dall’Inps sono state destinate alle famiglie delle regioni del Mezzogiorno, il 20% in più di quelle stimate dall’Istat e per un numero di famiglie povere decisamente superiore a quelle evidenziate nella rilevazione.

Erano le famiglie più esposte alla povertà? Nient’affatto. Per l’Istat le famiglie più esposte sono quelle più numerose, con tre o più minori a carico. Sono i nuclei che hanno registrato il maggior incremento delle condizioni di povertà assoluta nel corso del 2020, e che hanno a carico la gran parte dei 1,350 milioni di minori poveri. Tra questi, circa mezzo milione non risulta beneficiare dei sussidi del Rdc. Significativo il fatto che il 41% delle domande accolte riguardi nuclei familiari composti da una sola persona.

Un bel contributo a distorcere i risultati del Reddito di cittadinanza l’ha offerto l’esclusione degli immigrati che non hanno i dieci anni di residenza. I nuclei composti da stranieri risultano essere il 28% sul totale delle famiglie povere in Italia, e il 40% dei minori in questa condizione, ma rappresentano solo il 12% delle domande di Rdc accolte. Curioso il fatto che gli immigrati in condizione di povertà assoluta, o a forte rischio di diventarlo (nell’insieme circa i due terzi della popolazione regolarmente residente in Italia), debbano subire nel contempo l’ostracismo storico della destra politica, e quello di una sinistra che preferisce ignorare il problema perché oggettivamente incompatibile con la ricorrente rivendicazione di ampliare l’accoglienza di nuovi immigrati.

Di altre distorsioni operate dal Rdc sulla materia ne potremmo citare a iosa, a partire dalla pretesa di intervenire con l’erogazione dei sussidi per affrontare le condizioni di povertà derivanti dalle dipendenze da alcol, droghe e giochi d’azzardo, ma per brevità di spazio ci limitiamo alle valutazioni esposte. Deve essere però chiaro queste distorsioni non sono il frutto di incidenti di percorso, ma della deliberata volontà di utilizzare il pretesto della povertà per erogare sussidi al reddito a capocchia e per fini clientelari. Le penalizzazioni – delle famiglie numerose, delle aree del nord e degli immigrati – sono puntualmente declinate nelle modalità stabilite per accedere ai benefici e per definire gli importi di spettanza. Frutto della deliberata volontà di trasformare lo strumento del Rdc in una sorta di reddito di base per le singole persone disoccupate, come propagandato in campagna elettorale dagli esponenti del M5S, e che viene riproposto dall’attuale ministro del Lavoro quando teorizza di utilizzare il Reddito di cittadinanza per i disoccupati in uscita dai sostegni al reddito ordinari.

Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa sulla materia il nostro presidente del Consiglio e su come debba essere declinata in proposito la teoria del debito buono, destinato a stimolare la crescita economica, a differenza di quello cattivo destinato a generare sprechi e disincentivi per le attività economiche. Confidiamo in lui.

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