Il Reddito di cittadinanza è arrivato alla prima scadenza, quella dei 18 mesi previsti dalla legge per il rinnovo delle domande dei primi beneficiari dei sussidi, previa la verifica della permanenza dei requisiti. Con una certa disinvoltura, anche i paladini politici del provvedimento, il Ministro Di Maio e l’attuale Presidente dell’Inps Tridico, riconoscono l’esigenza di rivedere lo strumento alla luce degli esiti fallimentari per la parte relativa all’inserimento al lavoro dei beneficiari, rivendicando la bontà dell’intervento per la finalità di ridurre i livelli di povertà assoluta delle famiglie residenti in Italia.



Cambiare opinione è legittimo, e sotto l’aspetto umano persino apprezzabile, se trascuriamo il fatto che, sulla base del presupposto di mettere in campo “la più importante politica attiva del lavoro, mai avviata in Italia” (definizione utilizzata ufficialmente per il lancio del programma), sono state dirottate per lo scopo tutte le risorse pubbliche destinate al reinserimento lavorativo degli altri disoccupati e si è disposta l’assunzione di 2.800 navigator e altri 8.000 funzionari per i servizi pubblici per l’impiego.



Nel febbraio del 2019, Tridico si era spinto oltre la già azzardata pretesa di “creare il lavoro”, almeno un milione di posti, tramite degli improvvisati navigator, spiegando che la scelta di consentire ai beneficiari del sussidio di rifiutare le offerte di lavoro inferiori a 856 euro mensili, oltre che i contratti a termine, in pratica di scartare il 70% delle offerte di lavoro attivate ogni anno e regolarmente svolte dal resto dei cittadini italiani, doveva essere considerata un’anticipazione della scelta di introdurre il salario minimo per legge.

Sulla base di questi presupposti velleitari, fu abbandonata in fretta e furia la sperimentazione in corso del Reddito di inclusione, avviata dal Governo Gentiloni e mirata a favorire il consolidamento di uno strumento permanente finalizzato al sostegno alle famiglie povere, sulla base di un mix di sussidi e di servizi mirati a contrastare in modo personalizzato le specifiche condizioni di povertà delle persone e dei nuclei.



Il tutto con un supplemento di oltre 10 miliardi di spesa pubblica nei primi 18 mesi erogati sulla base delle autocertificazioni degli interessati, e in assenza di un’adeguata struttura di controllo dei requisiti delle domande inoltrate. Come ampiamente dimostrato in numerose indagini a campione, o effettuate per altri motivi, dalla Guardia di finanza, che legittimano il sospetto di una presenza diffusa di beneficiari abusivi.

La recente indagine dell’Istat sulla povertà in Italia nel corso del 2019, pubblicata nel mese di luglio u.s., evidenzia una riduzione di circa 400 mila persone in condizioni di povertà assoluta rispetto ai 4,990 milioni dell’anno precedente. Una smentita clamorosa delle roboanti dichiarazioni rilasciate poco prima dal presidente del Consiglio Conte e dal Presidente dell’Inps, che facendo leva sul numero delle persone e dei nuclei familiari che hanno beneficiato dei sussidi, oltre tre milioni appartenenti a circa 1,2 milioni di nuclei familiari, rendevano noto alla pubblica opinione che il Reddito di cittadinanza aveva ridotto del 60% il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta. In buona sostanza sarebbero stati erogati sussidi per oltre 3 milioni di persone per ottenere il risultato di far uscire dalle condizioni di povertà assoluta solo il 15% dei beneficiari. Come bruciare una foresta per fare un uovo al tegamino.

Il dato dell’Istat non sorprende affatto gli esperti della materia, per il semplice fatto che i criteri utilizzati dall’istituto di statistica per stimare il numero delle persone povere, sulla base della capacità di spesa effettiva delle famiglie, e i requisiti richiesti dalla normativa per accedere ai sussidi del Rdc, il Reddito e il patrimonio formalmente dichiarato, differiscono in modo clamoroso, soprattutto per la scarsa attendibilità delle dichiarazioni fiscali.

Per non citare, la vergogna di aver escluso dai benefici gli stranieri extracomunitari con meno di 10 anni di residenza, che nell’indagine dell’Istat rappresentano da soli il 30% delle famiglie in condizioni di povertà assoluta in Italia. Una lacuna che spiega anche il mancato obiettivo di ridurre il numero dei minori in condizioni di povertà, circa 1,2 milioni, visto che quasi la metà degli stessi è parte dei nuclei composti da soli stranieri.

La pretesa di verificare i requisiti per beneficiare del Reddito di cittadinanza è stata completamente abbandonata nel corso dell’emergenza Covid, che ha fornito anche il pretesto per allargare le maglie della partecipazione, con l’introduzione di un fantomatico Reddito di emergenza erogato sulla base di requisiti approssimativi, e immancabilmente autocertificati, per 870 mila beneficiari aggiuntivi. In coincidenza del varo di una fallimentare sanatoria varata per il proposito di reclutare lavoratori stranieri per le raccolte agricole stagionali, i beneficiari del Reddito di cittadinanza sono stati esentati dal partecipare alle politiche attive e dal vincolo di accettare le eventuali offerte di lavoro.

Questo andazzo offre anche una spiegazione ragionevole al mutamento di opinione dei mentori del Reddito di cittadinanza. Un finto pentimento, finalizzato a rimettere in campo una specie di sussidio di base garantito senza particolari condizioni dallo Stato, e non a caso definito come Reddito di cittadinanza, sulla base del presupposto che il sistema produttivo, e l’utilizzo delle nuove tecnologie, rendano impraticabile l’obiettivo di una crescita significativa dell’occupazione. E, come tale, da utilizzare in modo diffuso per offrire una risposta di marca assistenzialista al massiccio incremento dei disoccupati atteso nei prossimi mesi.

Letto in altro modo, da coloro che non condividono questo tipo di analisi, per l’obiettivo di ri-diventare i capofila di una politica che accompagna la deriva parassitaria di un Paese, unico nel contesto di quelli sviluppati ad avere un numero di persone che lavorano inferiore a quelle prese in carico. Anche escludendo da queste ultime la quota dei minori.

Le origini del populismo all’italiana, del dilagare dell’invidia sociale, dell’ostilità verso le élites, della pretesa di risolvere i problemi stampando carta moneta e mettendo i debiti in saccoccia ai cittadini di altri Paesi dell’Ue, trovano molte spiegazioni in questo modo di concepire l’economia, la società e la politica. Una discriminante di non poco conto per come impostare un programma di rinascita del nostro Paese, destinato a generare fratture insanabili nella nostra comunità nazionale.

Sulla carta una riforma del Reddito di cittadinanza è possibile, e non solo per l’acclarata esigenza di riportare le politiche attive sull’obiettivo di offrire un supporto adeguato a tutte le persone che cercano lavoro. Persino obbligata, se si tiene conto dell’introduzione, prevista per la seconda metà del 2021, dell’assegno unico per il sostegno di tutti i minori a carico, per una cifra pro capite mensile ipotizzata in 250 euro destinata anche alle famiglie fiscalmente incapienti. Una novità che comporterebbe di fatto lo svuotamento di una parte consistente del potenziale bacino dei beneficiari del Rdc, in particolare per quelle famiglie con minori a carico più esposte ai rischi di impoverimento.

Paradossalmente nella proposta di Legge di bilancio avanzata dal Governo viene aumentato lo stanziamento per il Reddito di cittadinanza per mezzo miliardo di euro per il 2021, con una proiezione pluriennale di 9 miliardi di incremento. L’indicatore di una volontà politica che va ben oltre il perimetro del Movimento 5 Stelle e che offre un’idea sulla qualità delle risposte che una parte rilevante della nostra classe dirigente politica intende offrire ai problemi della comunità nazionale.