“Sentinella, a che punto è la notte?”. Con il Report di recente pubblicazione sul reddito e la pensione di cittadinanza, nonché sul reddito di emergenza, l’Inps sembra voler rispondere a questa domanda, come se dovesse rendere conto della destinazione e degli effetti di un importante flusso di risorse (circa 20 miliardi in tre anni) destinato a combattere (si disse addirittura abolire) la povertà e promuovere l’occupazione.
In un Paese in cui le valutazioni si compiono per partito preso (il caso più clamoroso è il giudizio comunemente riservato alla riforma Fornero delle pensioni), è sempre bene e corretto affidarsi ai dati dei rendiconti e tener conto del rapporto tra obiettivi e risultati, senza astrarsi dalle circostanze intervenute in via di fatto. Va da sé, per esempio, che un ragionamento intellettualmente onesto induce a non dimenticare il tragico biennio in cui determinate misure economiche hanno avuto corso, ovviamente col dovuto equilibrio, poiché i fallimenti al pari dei successi non dipendono mai da un unico problema. Poi, considerato l’ammontare delle risorse impegnate e spese nel “pacchetto cittadinanza/emergenza”, è preferibile non gettare via anche il bambino con l’acqua sporca.
Il Report, all’inizio, ripercorre le tappe dell’atterraggio del RdC/PdC nel corso del suo primo triennio, sottolineando una tendenziale crescita dei nuclei beneficiari di almeno una mensilità di queste prestazioni: nell’anno 2019 sono stati 1,1 milioni, per un totale di 2,7 milioni di persone coinvolte; nell’anno 2020 i nuclei sono stati 1,6 milioni, per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. I numeri sono saliti ulteriormente nel 2021, infatti i nuclei beneficiari di almeno una mensilità sono risultati quasi 1,8 milioni per un totale di poco meno di 4 milioni di persone coinvolte. L’importo medio mensile erogato è crescente nel tempo; complessivamente è aumentato dell’11%, passando da 492 euro erogati nell’anno 2019 a 546 euro erogati nell’anno 2021. Il differenziale assoluto tra Sud/Isole e Nord è stabile e di poco superiore a 100 euro al mese. Trattandosi di strumenti di inclusione sociale è quasi ovvio che il maggior numero di nuclei beneficiari si trovi nelle regioni del Mezzogiorno.
A fronte di circa 1,38 milioni di nuclei percettori sono state coinvolte più di 3 milioni di persone, così ripartite: 2 milioni nelle regioni del Sud e nelle Isole, meno di 600 mila nelle regioni del Nord e più di 400 mila in quelle del Centro. La regione con il maggior numero di nuclei percettori di RdC/PdC è la Campania (21% delle prestazioni erogate), seguita da Sicilia (18%), Lazio (10%) e Puglia (9%); nelle quattro regioni citate risiede quasi il 60% dei nuclei beneficiari. L’importo medio erogato nel mese di dicembre 2021 è di 546 euro con un differenziale assoluto di 296 euro tra l’importo RdC (577 euro) e l’importo PdC (281 euro). Circa il 60% dei nuclei percepisce un importo mensile fino a 600 euro mentre all’estremo opposto neanche l’1% percepisce un importo mensile superiore a 1.200 euro. Quanto alla cittadinanza, nell’87% dei casi il richiedente la prestazione risulta di cittadinanza italiana, nel 9% è un cittadino extracomunitario in possesso di un permesso di soggiorno, nel 4% è un cittadino europeo e infine, quota strettamente residuale, i familiari di tutti i casi precedenti.
Sappiamo che l’erogazione di queste prestazioni è stata parecchio chiacchierata puntando il dito sulle truffe che vengono periodicamente scoperte dalla Guardia di Finanza. Non si ha sentore delle sanzioni che vengono comminate in questi casi, né se interviene la magistratura a perseguire tali reati che, a suo tempo, in un mix di populismo e giustizialismo, furono sanzionati con pene talmente pesanti in anni di reclusione da risultare poco credibili ed esagerate; ma i proponenti del RdC rispondevano alle critiche della misura e delle possibili irregolarità, alzando l’entità delle pene detentive. È applicata la revoca “sanzionatoria”. Nel 2021 è stato revocato il beneficio a quasi 110mila nuclei, mentre nell’intero anno 20204 erano stati 26mila. I motivi per cui è possibile che il beneficio venga revocato sono molteplici. La motivazione più frequente è l’accertamento della “mancanza del requisito di residenza/cittadinanza”. Nel 2021 sono decaduti dal diritto 314 mila nuclei, erano stati 259 mila nell’intero anno 2020 e 80 mila tra aprile e dicembre 2019. La causa più frequente è legata alla variazione dell’Isee, che supera la soglia prevista. Tra i motivi di decadenza rilevano anche i casi in cui cambia la composizione del nucleo familiare.
L’importo medio varia sensibilmente per numero di componenti il nucleo familiare, passando da un minimo di 446 euro, per i nuclei monocomponenti, a un massimo di poco meno di 700 euro, per i nuclei con quattro componenti. I nuclei con minori sono 445 mila e rappresentano il 33% dei nuclei beneficiari coprendo il 55% delle persone interessate. I nuclei con disabili sono 235 mila e rappresentano il 17% dei nuclei beneficiari, coprendo il 18% delle persone interessate. Di 3 milioni di persone coinvolte, 773 mila sono minorenni; la distribuzione per numero componenti del nucleo vede la prevalenza (64%) di nuclei composti da una o al massimo due persone; il numero medio di persone per nucleo familiare è pari a 2,2 e l’età media dei componenti è di 36 anni.
Nel mese di dicembre 2021 i nuclei beneficiari di Pensione di cittadinanza sono 143 mila (10%), per un totale di 1,38 milioni di nuclei. Tale composizione varia in virtù della zona geografica: i nuclei percettori di RdC, rispetto ai nuclei percettori di PdC, hanno un peso minore nelle regioni del Nord, e maggiore al Centro e soprattutto nel Sud e Isole
Il decreto-legge n. 41/2021 ha introdotto alcune significative novità rispetto alla normativa che ha regolamentato il Rem nel corso del 2020. In primo luogo, sono state previste alcune modifiche ai requisiti per l’accesso per i nuclei familiari in condizione di difficoltà); in secondo luogo, è stata individuata una nuova categoria di beneficiari, ossia coloro che hanno terminato tra il 1° luglio 2020 e il 28 febbraio 2021 di percepire la Naspi e la Dis-Coll e sono in possesso dei requisiti previsti dalla legge. Si evidenzia che, in questa seconda ipotesi, il destinatario del Rem non è più il nucleo familiare nel suo complesso, ma il singolo beneficiario.
Complessivamente il Rem, nell’anno 2020, ha interessato 425mila nuclei che hanno percepito mediamente 550 euro al mese. Una quota consistente di questi nuclei (184 mila) ha beneficiato del Rem per cinque mesi, cumulando le proroghe. Attualmente il numero dei nuclei a cui è stata pagata almeno una mensilità, delle tre previste, del Reddito di emergenza, è 595 mila con un importo medio mensile pari a 545 euro e un numero di persone coinvolte pari a 1,4 milioni, mentre il numero di numero dei nuclei a cui è stata pagata almeno una mensilità, delle quattro previste, del Reddito di emergenza, è 556 mila con un importo medio mensile pari a 539 euro e un numero di persone coinvolte pari a 1,2 milioni. Oltre il 50% dei nuclei beneficiari risiede al Sud e nelle Isole.
Il Report Inps su RdC/PdC è uscito insieme ai dati resi noti dal Mef sugli effetti dell’assegno unico nella riduzione delle diseguaglianze che confermano le analisi compiute al momento dell’entrata in vigore del provvedimento. Tra i diversi risultati delle simulazioni, fatte a suo tempo, furono evidenziati l‘elevata quota di famiglie avvantaggiate (oggi il Mef le cifra in 2 milioni) e il rilevante ammontare del beneficio tra quelle che oggi sono escluse da qualsiasi misura di sostegno (intorno a 2.000 euro l’anno come per le famiglie beneficiarie). Inoltre, l’assegno è relativamente generoso nel caso delle famiglie numerose (con più di tre figli). In senso opposto, si rileva la penalizzazione (per circa 500 euro l’anno) per i nuclei con entrambi i genitori che lavorano e con un patrimonio immobiliare al di sopra delle franchigie Isee, anche a parità di reddito.
Le famiglie più avvantaggiate si trovano nel Mezzogiorno. Come quelle che hanno beneficiato nel triennio del il reddito di cittadinanza. Se a questi dati si aggiunge il numero delle prestazioni pensionistiche interamente a parzialmente assistenziali (assegni sociali, invalidità civile, indennità di accompagnamento, integrazione al minimo, ecc.) ci si rende conto di quante risorse pubbliche vadano nelle regioni meridionali allo scopo di contrastare la povertà e garantire un reddito.È una situazione, tuttavia, che va superata. E a questo proposito devono essere utilizzate le risorse del Pnrr, allo scopo di promuovere, in quell’area del Paese, una società civile in grado di crescere in autonomia. La contraddizione è ancora più evidente se si considera che il Rdc – ormai è una considerazione accettata dagli stessi promotori dell’istituto – si è rivelato un sostanziale fallimento per quanto riguarda le funzioni di promozione del lavoro. Le ragioni sono di diverso tipo: contingenti come le conseguenze della pandemia, strutturali come il funzionamento dei Centri per l’impiego, l’inadeguatezza delle reti informatiche, l’improvvisazione dei navigator (che pure non meritano le critiche che sono loro rivolte, come se dovessero essere il capro espiatorio di una sperimentazione che destinata, fin dall’inizio, a un clamoroso insuccesso), ma almeno è venuta allo scoperto la principale causa dell’insuccesso delle politiche attive. L’ha messa per iscritto il Comitato scientifico presieduto da Chiara Saraceno e tutte le analisi compiute a posteriori.
Come ha suggerito in una della sue dieci proposte il Comitato, la vera novità – di rilievo strutturale – consisterebbe nell’adeguare il concetto di “lavoro congruo” alle caratteristiche della platea dei richiedenti. Si riconosce, infatti, che “i beneficiari di RdC, anche quando teoricamente ‘occupabili’ spesso non hanno una esperienza recente di lavoro ed hanno qualifiche molto basse. Inoltre, i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione – edilizia, turismo, ristorazione, logistica – sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità. I criteri attualmente utilizzati per definire congrua, e quindi non rifiutabile, un’offerta di lavoro non tengono conto adeguatamente di questi aspetti”, mentre sarebbe prioritario favorire la costruzione di un’esperienza lavorativa. Pertanto, anche la qualità del lavoro che viene offerto dovrebbe considerare “almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi”, ma anche quelli per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, “per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare ad entrarvi e fare esperienza”.
Ma il bagno nella realtà si spinge oltre e mette in discussione la norma più assurda ora in vigore. L’obbligo di assumere a tempo indeterminato per le aziende che intendono usufruire dell’incentivo previsto. “Trovare un’occupazione a tempo indeterminato e con orario pieno rappresenta – è scritto nel documento – l’obiettivo ultimo dei percorsi d’inclusione lavorativa. Il mercato del lavoro, tuttavia, non sempre presenta queste condizioni, soprattutto all’ingresso, anche per chi non è, a differenza dei beneficiari di RdC, in situazione di particolare fragilità”.
In sostanza, il “vizio assurdo” del RdC stava (e lì è rimasto) nella pretesa di mettere assieme la lotta alla povertà e al c.d. precariato, senza avere gli strumenti informativi, formativi e organizzativi adeguati. Il che si è rivelato di per sé un problema serio; ma l’aspetto ancora più complesso ha riguardato il fatto che, pure in presenza di posti disponibili, i beneficiari del RdC non sarebbero stati in condizione di essere assunti, perché inadeguati a svolgere un’attività lavorativa. Ecco perché il RdC non è in grado di “servire due padroni” e deve essere riconvertivo – com’era il Rei – a una funzione di inclusione sociale del cittadino, prima ancora che del lavoratore.
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