Secondo il principio di non-contraddizione di Aristotele “è impossibile che la stessa cosa sia e non sia, ne medesimo tempo e sotto il medesimo rispetto”. In base a questo criterio, dotato di tremila anni di conferme, che Mario Draghi sia d’accordo con il reddito di cittadinanza nell’attuale versione scritta dal governo Conte 1 e quindi dal filotto, allora armonioso, tra Di Maio, Grillo e Casaleggio è impossibile.
Infatti, con la proverbiale finezza di linguaggio dei banchieri centrali, bravissimi a dire una cosa e il suo contrario nella stessa frase (violando, in questo caso sì, il principio di non contraddizione) Draghi ha detto ieri che “il concetto alla base del reddito di cittadinanza io lo condivido in pieno”. Un po’ come dire: “Il concetto alla base delle tasse lo condivido in pieno”, riservandosi però di fare una riforma per dimezzare l’Irpef (cosa, per inciso, che tutti auspichiamo e che lui un pochetto ha promesso).
In sostanza, fa scalpore che un economista come Draghi, già direttore generale del Tesoro privatizzatore, governatore della Banca d’Italia del lassez-faire al mercato, compresa la devastante acquisizione dell’Antonveneta da parte del Monte dei Paschi, già presidente di una Bce che comunque ha presidiato la stabilità dei prezzi più che quella dei redditi, ebbene: fa scalpore che uno così si converta davvero al reddito di cittadinanza, che come applicato in Italia è una boiata spaziale.
Infatti, non ci si è per niente convertito.
L’equivoco di fondo di questo Rdc, voluto ma chissà poi quanto consapevolmente da Di Maio & co., è che con questo strumento si è preteso di creare un nuovo canale di “politiche attive del lavoro”, dando cioè modo ai giovani di essere avviati al lavoro.
Balle. Il reddito di cittadinanza così com’è è diventato un ammortizzatore sociale anti-disoccupazione, e in questo senso è stato anche utile, ma non ha generato un solo posto di lavoro, ancor meno dei pochissimi prodotti dalla quota 100 salviniana.
Dunque una riscrittura urge, e in questo senso bene ha fatto il solito guastatore Matteo Renzi a porre il problema. Una riscrittura che distingua la componente assistenzialista dello strumento – in fondo necessaria (purché con un altro nome) per arginare le sacche di povertà da sempre presenti e recentemente accentuatesi nel Paese – dalla componente attiva, che non funziona.
Inutile aggiungere che lo strumento è talmente mal fatto da prestare il fianco alle peggiori speculazioni, come la città di Napoli che da sola assorbe tanti Rdc quanti tutta la Lombardia: fenomeni all’ordine del giorno di una pubblica amministrazione di nauseante inefficienza, e questa dovrebbe essere materia della strana riforma morbida di Brunetta, tanto morbida che nessuno protesta, forse perché nessuno se n’è accorto (e pensare che lo stesso Brunetta ha rischiato il linciaggio qualche anno fa per aver voluto giustamente introdurre gli orologi segnatempo e i tornelli, che non sono propriamente strumenti di tortura, essendo regolarmente usati da milioni di lavoratori privati, anche negli uffici pubblici: ma questo è un altro problema).
Dunque il reddito di cittadinanza va riscritto eccome. E Draghi ha ragione a dire di condividerne il concetto alla base, ma poiché la costruzione fatta su quella base è stata uno scempio, col suo consueto stile felpato – e se ne avrà il tempo materiale e lo spazio politico – Draghi quello scempio lo risanerà.
Però non dimentichiamoci una cosa ovvia: Draghi non è Superman. Deve barcamenarsi con un Parlamento di imbarazzante pochezza, e più ne parla bene, più lo fa per costringerlo con i suoi stessi complimenti a dimostrarsene all’altezza.
Un Parlamento con una sinistra ridotta a un gorilla nella nebbia, tra un segretario piddino perso dietro falsi totem e una Leu ridotta a succursale del nulla, ovvero dei cocci dei Cinquestelle. Questi ultimi, come “un volgo disperso che nome non ha” di manzoniana memoria, sono in cerca di rielezione e nulla più, senza un pensiero coerente e senza programma, con allo pseudo-vertice un avvocato borghese ed elegantone, azzimato addirittura, ridotto a prendere le difese dei magistrati giustizialisti (un avvocato?! Come un tabaccaio che faccia la crociata antifumo) e a fare il barricadero, e con i pochi ottimi elementi che comprensibilmente cercano di riposizionarsi per avere un futuro oltre le 5 stelle.
E infine una destra divisa in tre, con un leader decotto e improponibile dall’alto dei suoi 85 anni, una leader in crescita ma zavorrata dai troppi nazifascisti di cui accetta i voti e una Lega a doppia trazione, incapace di accettare un nemico a destra, convinta chissà perché di dover strizzare ancora l’occhio agli anti-euro e procrastinando in tal modo il possibile appuntamento con nuove responsabilità di vertice governativo.
Con queste carte false Draghi deve giocare. Fino alla primavera del ’23: poi si vedrà, ma senza cadere prima. Che dunque abbia una buona parola per tutti, ogni tanto, in fondo è un peccatuccio davvero veniale. E poi, si sa: i banchieri centrali hanno la licenza di dire bugie come gli agenti segreti di uccidere.
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