I dati contenuti nell’ultimo comunicato dell’Inps sullo stato di avanzamento del reddito di cittadinanza al mese di febbraio 2020 evidenziano con tutta probabilità la saturazione dei margini di espansione del provvedimento e la sostanziale stabilizzazione dei suoi effetti in termini di contrasto della povertà assoluta.



All’incremento statistico delle domande presentate, 1,677 milioni, e di quelle accolte, 1,119 milioni per un potenziale di 2,6 milioni di persone coinvolte, corrisponde un’effettiva erogazione di 990 mila assegni mensili frutto di una selezione successiva dei beneficiari dovuta al venir meno dei requisiti per i livelli di reddito o per effetto dei controlli operati a valle dell’approvazione delle domande.



Il livello delle domande respinte, il 27% di quelle presentate, rimane particolarmente elevato a dimostrazione di una propensione a richiedere la prestazione largamente superiore ai fabbisogni stimati, soprattutto per la componente dei cittadini italiani.

La spesa complessiva si mantiene costantemente al di sotto delle previsioni e delle coperture finanziarie, 4,358 miliardi rispetto ai 7 originariamente previsti, soprattutto per l’entità degli importi medi erogati, 496 euro mensili per il reddito di cittadinanza e 226 euro per le pensioni di cittadinanza.

Sui dati comunicati dall’Inps sono seguite dichiarazioni alquanto disinvolte da parte dei rappresentanti delle istituzioni rivolte a esaltare i risultati ottenuti: il presunto abbattimento del 60% del numero delle persone in condizioni di povertà assoluta, ovvero la riduzione di un punto dell’indice Gini relativo ai livelli di disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Dichiarazioni non confortate da analisi congrue e che comunque non possono essere certamente sviluppate sulla base delle esigue statistiche comunicate dall’Inps.



Come abbiamo avuto modo di evidenziare nei precedenti commenti, la platea dei possibili beneficiari del provvedimento sulla base dei requisiti previsti dalle norme per richiedere la prestazione, si discosta notevolmente da quelli utilizzati dall’Istituto di statistica nazionale per stimare le persone in condizioni di povertà assoluta. In particolare, penalizzano i cittadini stranieri extracomunitari e le famiglie numerose. Gli immigrati rappresentano infatti una quota inferiore al 10% dei beneficiari rispetto al potenziale 30% stimato dall’Istat, mentre le famiglie con minori a carico rappresentano solo il 36% dei nuclei beneficiari, laddove invece risulta preponderante, 4 su 10, il numero dei nuclei monocomposti.

Le critiche rivolte al provvedimento, la confusione tra le politiche rivolte a contrastare la povertà e quelle rivolte a favorire l’inserimento lavorativo, la penalizzazione delle famiglie con minori e disabili in carico, i ritardi nella messa a punto delle banche dati finalizzate ai controlli preventivi sui redditi e sui patrimoni e gli scarsi risultati ottenuti sul versante del reinserimento lavorativo, hanno riportato l’attenzione sull’opportunità di riformare il reddito di cittadinanza. In particolare si sottolinea l’esiguità del numero delle persone, circa 40 mila sui circa 900 mila beneficiari potenzialmente occupabili, che hanno trovato lavoro per iniziativa spontanea e in assenza di un ruolo attivo della costosa rete dei navigator.

Nella realtà il provvedimento, per com’è stato predisposto, si presenta difficilmente riformabile. La scelta di privilegiare i sussidi rispetto ai servizi risulta controproducente per contrastare le diverse cause della povertà, le varie tipologie di dipendenza, l’abbandono scolastico, la stessa ricerca del lavoro. Il sostegno alle famiglie numerose è un’esigenza che va affrontata con misure specifiche non come rimedio emergenziale. Le politiche attive per il lavoro rivolte a persone poco occupabili non possono prevedere la possibilità di rifiutare qualsiasi proposta che non sia a tempo pieno e indeterminato.

In generale è tutta la filosofia del provvedimento a essere ispirata verso interventi assistenziali onerosi, privi di razionalità e palesemente rivolti a soddisfare esigenze e aspettative di natura elettorale.

Dal punto di vista tecnico tutti i provvedimenti sono riformabili, da quello politico no. Perché sono l’espressione del modo di intendere la politica, della forza maggioritaria della coalizione di governo, con effetti degenerativi che rischiano di produrre danni irreparabili in ambito istituzionale, economico e sociale.