Il reddito di cittadinanza ha oltre sei mesi di attuazione alle spalle e i dati relativi alla sua applicazione incominciano a delineare i contorni del “popolo” che attinge al sostegno al reddito. Come noto, il reddito di cittadinanza assume il nome di pensione di cittadinanza se il nucleo famigliare è composto da pensionati con età superiore ai 67 anni. Questi ultimi nuclei famigliari non sono tenuti a partecipare ai percorsi previsti per un inserimento lavorativo e di inclusione sociale. In totale sono arrivate (dato di inizio ottobre) 1,5 milioni di domande, 982 mila sono state accolte (65%), 126 mila sono in fase di approvazione (8%) e 415 mila sono state respinte o cancellate. 39 mila nuclei famigliari sono decaduti dal beneficio per mutamenti intervenuti successivamente al riconoscimento nella composizione del nucleo famigliare.
Per quanto riguarda la composizione dei 943 mila nuclei famigliari che percepiscono il sussidio, sono 825 mila, percettori di reddito di cittadinanza, per un totale di 2,2 milioni di persone, e 118 mila sono quelli beneficiari della pensione di cittadinanza, per un totale di 134 mila persone coinvolte. In termini di residenza, il 56% dei percettori è residente al sud, il 28% al nord e il 16% al centro Italia. I residenti di Campania, Sicilia, Lazio e Calabria rappresentano il 54% del totale dei beneficiari.
Per accedere al servizio i cittadini si sono rivolti per oltre il 75% dei casi ai sindacati. Il 64% ai Caf e il 14% ai patronati. Solo il 21% delle domande è arrivata tramite la rete dagli uffici postali. (È questo un dato che dovrebbe fare riflettere anche per quanto riguarda la possibilità di attivare reti sussidiarie per altri servizi alla persona, erogati da reti che non hanno la stessa efficienza, né soprattutto la stessa credibilità). Per oltre il 90% i beneficiari sono cittadini italiani e il restante 10% circa si divide fra cittadini europei ed extracomunitari residenti in Italia.
Per quanto riguarda il contributo economico rimane mediamente per tutto il periodo sotto i 500 euro. Nell’ultimo mese è pari a 471 euro. Al valore medio si arriva con però differenze che riflettono le diverse casistiche di composizione famigliare. Come noto, il reddito rappresenta per una parte integrazione al reddito famigliare fino ai 6.000 euro annui (7.650 in caso di pensione di cittadinanza) parametrata nelle scale di equivalenza più contributi per mutuo o affitto. Si arriva così al contributo medio massimo di 613 euro, per reddito di cittadinanza più mutuo, al minimo di 212 euro per pensione di cittadinanza più canone.
La composizione dei nuclei famigliari coinvolti ne comprende 340 mila con minori, i quali risultano in totale 597 mila. Il 21% dei beneficiari ha invece disabili nel nucleo famigliare.
I dati pubblicati dall’osservatorio statistico Inps fanno poi, ed è evidente il motivo propagandistico, un confronto con il Reddito di inclusione avviato dal governo Gentiloni. Aveva coinvolto meno nuclei famigliari (333 mila circa) e offriva un contributo medio inferiore di circa 300 euro. È però un confronto che ha scarse basi oggettive. Vale il confronto politico fra due misure che si dichiarano entrambe come contrasto alle povertà. Il reddito di cittadinanza è però, secondo la legge istitutiva, una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Proprio per la sua natura composita, ovviamente con l’esclusione di chi viene ammesso alla pensione di cittadinanza, i beneficiari sono tenuti a seguire percorsi personalizzati di inserimento lavorativo e, in caso di problematiche diverse, percorsi di inclusione sociale. A tal fine sono stati attivati i famosi navigator che dovranno proporre opportunità lavorative ai beneficiari del reddito, che, qualora dovessero rifiutare tre offerte di lavoro, decadranno dal beneficio. Coloro che sono sotto la soglia di povertà per problematiche non determinate solo da mancanza di lavoro, verranno presi in carico dai servizi comunali e dovrebbero trovare nei servizi sociali un percorso che li riporti all’inclusione sociale e quindi a una collocazione lavorativa.
La misura è apparentemente perfetta, ma quando un provvedimento si propone di colpire molti obiettivi e ha pochi strumenti, si può facilmente prevedere che non riuscirà a soddisfarne nessuno. E infatti i dati diffusi dagli assessori regionali al lavoro e welfare, che seguono l’attuazione del provvedimento sui territori, evidenziano come i due obiettivi sociali (lavoro e inclusione), che dovevano seguire l’avvio del contributo economico, non sono ancora partiti, e soprattutto non corrispondono minimamente a quella mobilitazione di servizi territoriali che può creare la rete di servizi indispensabili per la presa in carico dei beneficiari del reddito.
Così nessuno sa come suddividere fra navigator e servizi comunali i gruppi di beneficiari e quindi i comuni sono ancora in attesa di capire da dove saranno informati. Ma ancora di più è evidente che solo i navigator, almeno per 3 anni, hanno trovato risposta al loro bisogno di lavoro visto che solo il 7% dei beneficiari del RdC con bisogno di lavoro sono stati contattati, ma ancora in assenza di offerte di lavoro.
Insomma, i poveri risultano la metà di quanto previsto (l’avanzo degli stanziamenti lo conferma) e i servizi al lavoro latitano. È il caso di ripensare un provvedimento che, se funzionante, sarebbe sicuramente utile e necessario.