Caro direttore, in molti, in questi giorni, hanno proposto di utilizzare come braccianti agricoli i beneficiari del reddito di cittadinanza, come una sorta di attuazione del principio di “condizionalità” che vincola al percettore di sussidio alla disponibilità a svolgere un lavoro. Ritengo che la proposta sia “palesemente” sbagliata per una serie di motivi che per semplificazione andrò ad elencare:
– il lavoro di bracciante agricolo è un lavoro usurante e richiede un ottimo stato di salute;
– la professione del bracciante agricolo rientra all’interno della contrattazione nazionale, dove sono previsti contributi sociali e tutti i relativi diritti previsti dal rapporto di subordinazione.
Pertanto, mi chiedo perché le aziende agricole non scrivano ai Centri per l’impiego territoriale per creare un annuncio di lavoro. Magari, perché in passato la manodopera, in prevalenza straniera, veniva reclutata in nero da “caporali” italiani e stranieri. Adesso gli stranieri disponibili sono pochissimi, inoltre una buona parte dei “clandestini” risiede nelle città e non può essere “sfruttata” nei campi dai “caporali”, vuoi anche perché il fenomeno lockdown comporta maggiori controlli.
Piuttosto che pagare regolarmente un lavoratore, ecco l’idea di “sfruttare” i destinatari del reddito di cittadinanza, ma basta leggere le analisi socio-anagrafiche dei percettori (over 45, donne con carichi familiari, problemi di salute, ecc.) per rendersi conto che la maggior parte di essi non potrebbe svolgere il lavoro di bracciante agricolo. Inoltre, la carenza di manodopera dimostra chiaramente due cose:
– che gli italiani non vogliono fare il bracciante agricolo (così come la “badante” e altri lavori usuranti);
– gli stranieri, soprattutto se “clandestini”, favorivano la presenza di un “florido” mercato nero nell’agricoltura.
Non metto in dubbio la presenza di realtà che non hanno mai sfruttato i lavoratori, pagando tutti i contributi e sono assolutamente convinto che ne esistano molte in Italia, ma non potrebbe spiegarsi altrimenti il fatto che ci troviamo di fronte alla paradossale situazione di 300mila posti di lavoro offerti nell’agricoltura e 6 milioni di italiani disoccupati/inattivi scoraggiati. In sintesi, se questi 6 milioni non vanno a lavorare nei campi, la spiegazione più plausibile è perché i salari sono una miseria, al momento solo dei disperati potrebbero accettare tali compensi.
Un ulteriore motivo per cui ritengo la proposta sbagliata è più etico e morale: utilizzare i percettori del reddito di cittadinanza al posto di lavoratori subordinati (anche nel caso di una forma ibrida) significa andare contro il principio di dignità della persona e considerare la povertà un crimine (frutto della pigrizia) che va debellato attraverso un rigido meccanismo di condizionalità, non molto distante dalle “Poor Laws” inglesi del 1500.
Agli imprenditori agricoli va detto che è il “mercato bellezza!”, se l’offerta di lavoro non arriva occorre alzare i salari fino a quando non si troverà “forza lavoro”, ovviamente intaccando i ricavi finali oppure alzando il prezzo del prodotto finale, se il mercato lo permette. In alternativa, il business dell’impresa agricola è sbagliato, soprattutto se la materia prima è venduta direttamente alla grande distribuzione e non “raffinata” per realizzare un maggiore valore aggiunto (in sintesi, si fanno molti più soldi con salse e non con cassette di pomodori).