Un nuovo mantra aleggia nel dibattito politico culturale italiano: il Reddito di cittadinanza può essere criticabile, non funziona bene per la parte dell’inserimento al lavoro dei beneficiari, ma è uno strumento indispensabile per contrastare la povertà. Guai a metterlo in discussione. I pochi che lo fanno, compreso il sottoscritto, vengono relegati nel recinto delle persone ciniche e insensibili ai problemi della povera gente.
Eppure ci sarebbero buoni argomenti per dubitare che qualcosa non torna. Non solo l’evidenza che, nonostante la fiumana degli aiuti di Stato per i redditi alle famiglie ivi compresi i 25 miliardi di spesa pubblica dedicati al Reddito di cittadinanza, sia aumentato il numero delle persone povere (secondo l’Istat oltre mezzo milione in più rispetto ai 5 milioni precedenti all’introduzione del Reddito di cittadinanza). I dubbi aumentano se si considera che, a partire dal 2008, la spesa statale annuale destinata all’assistenza per le voci che a vario titolo dovrebbero concorrere a prevenire e contrastare la povertà (integrazioni al reddito e alle pensioni, sostegni per i carichi familiari e per le persone disagiate, incentivi per assumere i disoccupati) è aumentata da 74 a 144 miliardi, per un volume di erogazioni aggiuntive superiore ai 300 miliardi di spesa pubblica. Nel medesimo periodo il numero delle persone povere è aumentato del 250%. Il tutto, senza considerare la spesa erogata per le medesime finalità dalle Regioni e dagli Enti locali che viene stimata come superiore ai 20 miliardi l’anno.
Per giustificare l’andazzo, la letteratura in materia di disuguaglianze si è arricchita. La retorica sulla povertà oggi può avvalersi di studi e di indagini sulla precarietà e sul lavoro povero e mal retribuito che si concludono immancabilmente col richiedere l’immissione di nuove vagonate di miliardi di spesa pubblica per fare le medesime politiche che hanno prodotto i risultati fallimentari. In questo modo gli esiti fallimentari degli interventi messi in campo vengono paradossalmente utilizzati come pretesto per giustificare nuovi aumenti della spesa pubblica alimentando una deriva assistenzialista e parassitaria che non conosce limiti.
Proviamo a spiegare questo paradosso. Le indagini sulla povertà assoluta sviluppate dall’Istat fanno leva sugli indicatori di consumo delle famiglie (vengono considerati poveri i nuclei con una capacità di spesa inferiore al 60% del reddito mediano). L’Istat non prende in considerazione i redditi dichiarati per l’evidente motivazione che una parte significativa di questi, circa 200 miliardi, non viene dichiarata al fisco. Nonostante il correttivo adottato, gli stessi ricercatori dell’Istat sono ben consapevoli che i dati rilevati sopravvalutano il fenomeno perché le persone interpellate tendono a sotto dichiarare la spesa effettiva.
I beneficiari delle prestazioni assistenziali delle amministrazioni, con l’esclusione delle persone fisicamente non autosufficienti, vengono selezionati sulla base della prova dei mezzi disponibili quantificata dalle dichiarazioni Isee (redditi da lavoro o da altre fonti, patrimoni mobiliari e immobiliari ufficialmente posseduti). Dove si annida la buona parte degli oltre 200 miliardi di redditi sottratti alla fiscalità? Secondo i resoconti dell’Istat e dell’Agenzia delle entrate, per la maggior parte nelle sotto dichiarazioni e nelle prestazioni di lavoro sommerso di lavoratori dipendenti e autonomi, con una particolare accentuazione nei comparti dei servizi rivolti alle persone e alla collettività, nelle manutenzioni e nelle riparazioni di immobili e di mezzi, nell’agricoltura e nelle costruzioni, nei territori del Mezzogiorno. La quota delle prestazioni di lavoro sommerse (doppi lavori, lavori occasionali, quote di salario percepito ma non dichiarate, prestazioni da lavoro autonomo) equivale alle prestazioni a tempo di circa 3,4 milioni di lavoratori a tempo pieno. Ma ovviamente il numero dei mancati contribuenti che concorre a questo risultato è molto più elevato.
Tutto ciò offre una spiegazione ragionevole al perché oltre 12 milioni di contribuenti dichiarano redditi inferiori alla no tax area e per il 43% di quelli totali, per effetto delle deduzioni e detrazioni, la tassazione reale sia estremamente contenuta. Se la mappatura dei redditi fiscali fosse equivalente a quelli reali in Italia ci sarebbero le condizioni per dei moti rivoluzionari. Diversamente aumentano i conti correnti della maggior parte delle famiglie e delle imprese, e si fatica a trovare persone disponibili a lavorare il sabato e la domenica.
Ovviamente ci sono altre modalità più o meno legali per eludere il fisco, assai praticate dalle imprese e dai capitali finanziari, ma che per ovvie ragioni concorrono in modo marginale alla formazione dei redditi che vengono dichiarati per accedere alle prestazioni assistenziali. Dichiarare il dovuto comporta l’effetto combinato di pagare più tasse e di perdere il diritto alle prestazioni pubbliche di vario genere.
La Commissione Saraceno, insediata dal ministro del Lavoro pro tempore per valutare i risultati dell’attuazione del Rdc, ha preso come riferimento le autodichiarazioni Isee rilasciate dai richiedenti e dai beneficiari (sic) per valutare l’efficacia del provvedimento per l’obiettivo di ridurre i livelli di povertà assoluta. Proponendo nelle conclusioni di aumentare di 2,5 miliardi la spesa annuale per il Rdc così da ridurre i requisiti che impediscono un’adeguata partecipazione delle famiglie degli immigrati, e aumentare gli importi degli assegni per le famiglie numerose. Senza tener conto che, nel frattempo, l’introduzione dell’assegno unico, con l’aggiunta di 7 miliardi di nuove risorse, ha alleviato in modo consistente il problema dei minori a carico in particolare per le famiglie fiscalmente incapienti (con l’adeguamento automatico per i nuclei beneficiari del Rdc), per le famiglie dei lavoratori autonomi precedentemente esclusi e per i nuclei composti da stranieri.
Una semplice comparazione tra i dati dell’indagine Istat con quelli relativi alle erogazioni del Rdc effettuate dall’Osservatorio dell’Inps sull’intero arco di vigenza del Rdc, rafforzato nel corso della pandemia Covid dalla sua estensione tramite il Reddito di emergenza (per un totale superiore ai 4,5 milioni di beneficiari), consente di constatare che nel Mezzogiorno i nuclei che hanno percepito gli assegni risultano superiori a quelli stimati dall’Istituto di statistica (mentre all’opposto il grado di copertura nelle regioni del Nord risulta inferiore del 60% rispetto ai potenziali beneficiari). Analoga considerazione deve essere fatta per gli assegni erogati ai nuclei composti da persone sole (oltre il 40% del totale rispetto a un’incidenza del 12% nelle stime effettuate dall’Istat).
L’accertamento della congruità delle domande inoltrate viene fatto sulla verifica documentale delle dichiarazioni autocertificate da parte dei richiedenti. Nei tre anni di vigenza del Rdc tutto ciò è stato fatto in assenza presso l’Inps di banche dati aggiornate e incrociate con le altre amministrazioni per tale scopo. Permane l’impossibilità dell’Ente erogatore di accertare le prestazioni sommerse, cosa che viene delegata alle attività ispettive sul campo con esiti che scalfiscono a malapena il dato delle prestazioni sommerse.
I servizi per l’inserimento lavorativo continuano a essere praticamente inesistenti. I riscontri con le attività lavorative dai beneficiari del Rdc svolte in precedenza o durante l’usufrutto del sussidio non provengono dalle attività dei navigator o dai Centri per l’impiego, ma dal sistema delle Comunicazioni obbligatorie presso il ministero del Lavoro. I report sull’attività dei Centri per l’impiego segnalano essenzialmente i colloqui, le prese in carico previste dalla legge (per circa 900 mila persone) le proposte formative, le segnalazioni delle opportunità lavorative. Non gli esiti occupazionali e tanto meno i rifiuti. E dopo? Gli interessati prendono atto che conviene tenersi l’assegno pubblico, da arrotondare semmai con qualche prestazione lavorativa più o meno solida. Poi si vedrà, il rischio di venire sanzionati è un’eventualità remota. Infatti, l’incidenza dei beneficiari del Rdc in età di lavoro che svolgono lavorative ufficiali è del tutto marginale (lavori occasionali, part-time e a termine). Nonostante la propaganda diffusa nella direzione opposta dal ministro del Lavoro in carica. Per la buona parte già in essere nel momento della presentazione della domanda (circa il 12%), ovvero legate alla ricerca spontanea di nuove opportunità lavorative da parte di coloro che beneficiano di assegni Rdc di basso importo.
La domanda se i sostegni al reddito possano costituire un disincentivo per la ricerca attiva di nuove opportunità di lavoro contrattualmente regolari è più che legittima. A maggior ragione se si tiene conto che una parte significativa dei percettori, per le motivazioni già evidenziate, convive storicamente con le pratiche del lavoro sommerso. È del tutto comprensibile, e persino razionale, l’indisponibilità degli interessati a svolgere lavori regolari a termine o stagionali, che comportano il pagamento delle tasse relative e la rinuncia agli assegni pubblici.
La funzione di salario di riserva svolta dai sostegni al reddito, per consentire ai beneficiari di rifiutare le proposte di lavoro considerate precarie, viene persino teorizzata da una parte (sciagurata) dei sostenitori del Rdc. Un vero peccato che questi disagi, nel contempo, se li debba sorbire qualche milione di lavoratori italiani e stranieri che non beneficiano dei sussidi pubblici.
L’elenco delle motivazioni volte a giustificare il perché non possano o non debbono lavorare è lungo: bassa occupabilità, lavoro non appetibile, scarso funzionamento dei Centri per l’impiego, imprenditori sfruttatori. Puntualmente accompagnate dalla richiesta di importare nuovi immigrati per svolgere i lavori che non vogliono fare gli italiani. Ma i beneficiari dei sostegni al reddito, e non solo del Rdc, non sono affatto persone stupide o nullafacenti. Sono persone razionali. A essere stupide sono le politiche. Infatti, nessun Paese della vecchia Europa adotta le modalità utilizzate in Italia per contrastare la povertà assoluta. A partire dall’erogare sussidi finanziari per le persone soggette a dipendenze, o rifiutare le offerte di lavoro.
Il Reddito di cittadinanza è riformabile? Come sottolineato in precedenza, in parte la riforma di fatto è avvenuta con l’introduzione dell’assegno unico per i figli a carico delle famiglie fiscalmente incapienti, dei lavoratori autonomi e degli stranieri. Ma il tema, purtroppo, non può essere scorporato dalla deriva pauperista che viene svolta in modo combinato dalle politiche fiscali e da quelle di riforma del welfare che scoraggiano la crescita dei redditi ufficiali e favoriscono l’indebito accesso alle prestazioni sociali di una parte significativa di finti poveri. Una deriva che trova supporto nelle letture distorte della realtà da parte significativa dei cosiddetti intellettuali e dei mass media. La storia italiana insegna che quando le prestazioni assistenziali vengono adottate, si mettono in moto le strategie politiche per estenderle ad altri soggetti. Indietro non si torna.
Così va il mondo: il consenso a ogni costo a prescindere di chi paga il conto. E sono pochi coloro realmente interessati a mettere un freno a questa deriva.
Il tema delle disuguaglianze, reali o presunte, è diventato il terreno di coltura delle pulsioni populiste che hanno contribuito a diffondere l’irresponsabilità sociale e a impoverire il Paese. Senza aiutare le persone povere.
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