La “madre” di tutti gli errori: aver confuso il Reddito di cittadinanza con un sussidio di disoccupazione! L’idealtipo del beneficiario del RdC è un soggetto molto difficile da collocare nel mercato del lavoro, in prevalenza residente nel Sud Italia, con un reddito familiare medio annuo bassissimo (3.500 euro). Si combinano due svantaggi: a quello personale (titolo di studio basso e periodo di disoccupazione molto lungo) si somma quello di trovarsi in regioni (Sicilia, Calabria e Campania) con tassi di disoccupazione molto elevati.



Una buona parte di questi soggetti, non certo tutti (all’interno della platea è presente una piccola quota già potenzialmente pronta per il mercato del lavoro, i circa 40mila auto-collocati ne sono la dimostrazione), è fatta di persone che andrebbero gestite da un punto di vista dell’inserimento sociale, attraverso progetti comunali o sovra-comunali, adattati al territorio e ai carichi familiari, gestiti da enti (profit e no-profit) con attività di supporto psicologico e motivazionale.



Aver creato una sorta di collegamento tra due strumenti, sostegno al reddito e politiche attive è stato un azzardo “mortale”, il quale vanifica un principio “lodevole” volto al contrasto della povertà (che non si cancella magicamente per decreto!). La responsabilità di tale errore è da imputare direttamente al Movimento 5 Stelle, che ha ignorato tutta la letteratura e i commenti tecnici di esperti che avevano precedentemente studiato strumenti come il Reddito minimo di inserimento, sperimentato per il contrasto alla povertà a fine anni ’90.

A livello teorico la collocazione del beneficiario del RdC nel mercato del lavoro è la miglior soluzione, ma la realtà ci dice che è molto difficile che questo avvenga, soprattutto in territori dove non c’è lavoro. L’alternativa al sussidio e quello di far ricorso in massa a programmi di Job Creation, come avviene in diversi paesi del Nord Europa. Effetto collaterale di questo “perverso” meccanismo di condizionalità tra politiche attive e contrasto alla povertà è ben rappresentato dalla figura del navigator: adesso che fine farà? Una figura professionale che non esiste in nessun altro paese Ocse, mentre esistono i case manager, ma la cui preparazione è spesso frutto di un percorso formativo/universitario appositamente realizzato. Tuttavia, nonostante non siano in grado di rivestire il ruolo di case manager, ai navigator è stata comunque fornita una formazione e quando termineranno il loro incarico avranno accumulato una pluriennale esperienza nell’ambito della ricollocazione di soggetti molto svantaggiati e inoltre (si spera) avranno avuto modo di confrontarsi e conoscere le realtà imprenditoriali del territorio. Sarebbe un vero peccato non prevedere un ingresso “agevolato” (comunque soggetto a un concorso pubblico) di questo personale all’interno dei servizi pubblici per l’impiego a livello regionale, in particolare nelle attività dei servizi alle imprese (individuazione e caricamento vacancy, pre-selezione candidati, ecc.).



Resta il fatto che i navigator, così come la nota “App” dedicata all’incontro tra domanda e offerta di lavoro (ispirata alla piattaforma presente nel programma Mississippi Works), dovrebbero rientrare in un disegno più complessivo di riforma delle politiche attive del lavoro. Se da una parte la Fase 2 del Reddito di cittadinanza ha compattato le Regioni soprattutto sul lato delle critiche, purtroppo non ha risolto la forte “balcanizzazione” delle misure delle stesse regioni, spesso “auto-celebrative”. In merito, non è chiaro perché Inapp non svolga il ruolo di valutatore indipendente dell’attuazione dei Livelli essenziali dei servizi al lavoro previsti da Anpal.

A riguardo, non immaginate quante volte il sottoscritto (tenendo confronti informali con valutatori pseudo-indipendenti) è venuto a conoscenza delle forti pressioni politiche per manipolazioni (o meglio non realizzazione) di alcune analisi che si traducevano in nessun analisi contro-fattuale; enfatizzazione solo dei risultati positivi e cancellazione di paragrafi “scomodi”. In questo modo anche la peggior politica attiva diventa una “buona pratica”.

Tornando al Reddito di cittadinanza, come ho già detto l’errore/disastro delle politiche attive del lavoro va attribuito alla classe politica grillina, completamente disinteressata dai suggerimenti degli esperti (bollati come complottisti) che avevano avvertito l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio di una serie di complesse difficoltà oggettive, tra queste forse vale la pena ricordare: scarsa collaborazione Stato-Regioni (non solo per questioni politiche, ma perché anche una riunione di condominio fatta con 20 persone diverse, ognuna con la propria visione, si trasforma in un “macello”); assenza di un contratto nazionale di categoria dei funzionari dei Cpi (dove le competenze di diritto dovrebbero essere compensato da competenze in psicologia e marketing); difficoltà di implementare qualsiasi sistema informativo per la complessa tecnostruttura oggi presente.

Le politiche attive del lavoro per effetto dell’attuale crisi sanitaria dovrebbero essere completamente riscritte: ciò che andava bene prima oggi è obsoleto, è necessario chiedersi quali saranno i compiti dei futuri Centri per l’impiego, ovvero i principali attori di queste politiche. A questi soggetti spetterà sempre di più un ruolo di “aggregatore”, un punto nevralgico di informazioni sul mercato del lavoro (assistenza alla costruzione del profilo professionale online; orientamento dei portali sul lavoro; motivatori nella ricerca del lavoro; accompagnamento alla riqualificazione). Tale compito richiederà anche una riscrittura dell’attuale sistema di relazione con l’operatore privato (profit e no-profit), che proprio per effetto dell’evoluzione della formazione a distanza e dei servizi digitali dovrà “reinventarsi” in produttore di nuovi servizi per l’impiego.

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