Siccome siamo un Paese serio, ci sembra bello e giusto che, alle soglie di quello che potrebbe essere il peggiore autunno della storia della nostra Repubblica, nel momento stesso in cui davanti a molti italiani si aprono le porte della disoccupazione esattamente quando quelle di molte imprese e aziende si stanno per chiudere, il nostro gruppo dirigente si divida e polemizzi ferocemente sulla apertura o la chiusura delle discoteche. Ma d’altronde, John Travolta, il mitico ballerino di Saturday Night Fever, non era pur lui un giovane scapestrato di italiche origini? E non siamo noi un popolo di santi eroi navigatori e ballerini? Tanto più che le balere nostrane rappresentano al meglio una parte di noi: allegri, confusionari, votati al divertissement, al “godiamo che del domani non v’è certezza” di medicea memoria.
E allora, vivaddio, al diavolo (curiosa sinestesia, questa) ogni pensiero complesso, ogni necessità di complicarsi la vita e finalmente si affronti il vero dilemma del domani: il rock’n roll e la salsa, la funk music e il rap, ammettono o no la mascherina? E come si fa a vivere senza discoteche? Che sono, a quanto pare il vero luogo deputato a farci dimenticare la situazione in cui ci troviamo. Senza lavoro si può stare, senza scuola invece pure, ma senza il mojito e la movida notturna, mai!
Tanto più che da due anni o giù di lì il populismo bipolare (non in senso clinico, please), ha dotato l’Italia dello strumento panacea di ogni male e disgrazia, il Reddito di cittadinanza. Insomma, abbiamo tutti a portata di mano una bella pensione ante pensionem, un sussidio temporaneo (presumibilmente nel senso che te lo danno solo fin che sei in vita, dopo no, ma sul punto non tutto è chiaro), un sistema per disporre di un fisso mensile cui aggiungere quanto la nostra italica furbizia ci consente di guadagnare.
Due anni, o poco meno, sono abbastanza per capire se lo strumento funziona. Che dire dunque oggi di questo meccanismo che fu pensato come distribuzione di massa di quella ricchezza nascosta nelle pieghe statali dai politici ricchi, fasulli e corrotti; fu presentato come un antidoto alla povertà; fu votato come la via per reimmettere nel mercato chi ne era stato espulso, alias licenziato? Mettiamola così: se doveva consentire ad alcuni di trovare lavoro, il numero di costoro è talmente alto che nessuno osa pronunciarlo. Questione di modestia: si può aver ragione, ma non bisogna infierire su chi, come noi, ha da sempre sostenuto che il Rdc era una follia. Scherziamo, ovviamente, perché il numero dei rioccupati corrisponde a un’infima minoranza, una frazione infinitesimale: potremmo ospitarli tutti nella vasca da bagno della discoteca della Santanché. Il reddito è uscito grandemente vincitore se lo si ritiene una forma di distribuzione di massa di denaro, ma ha fallito come via per il reimpiego.
Quanto possa essere utile, d’altronde, come strumento per risolvere l’annoso problema dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e l’ancor più strutturale vulnus della nostra economia, cioè quello della mancanza di manodopera specializzata e qualificata per il sistema produttivo, lo dimostra, paradossalmente, una recente iniziativa della Regione Lombardia.
Per bocca del suo assessore all’Agricoltura, alimentazione e sistemi verdi, Fabio Rolfi, infatti, per sopperire alla mancanza di manodopera per l’ormai imminente vendemmia, e per ovviare al problema della quarantena cui sono costretti quei lavoratori stranieri cui questa incombenza è affidata tradizionalmente, la Regione motore d’Italia (beh diciamo, un ex Euro 3, forse 4, oggi un tossicchiante Euro 4 e mezzo), ha deciso di coinvolgere nella questione anche i cittadini percettori del Reddito di cittadinanza.
Già, ma la questione è proprio questa. Non si tratta tanto di “voglia” (se uno vuole il lavoro lo trova, dicevano una volta le brave mamme lombarde ai figlioli spiegando a modo loro il mercato del lavoro), né di possibilità, ma l’iniziativa è in se una dimostrazione del fallimento del Rdc. Occorrerà infatti raccogliere le candidature (quindi solo i volontari saranno coinvolti), nelle quali si dovranno indicare esperienze, disponibilità e “situazione logistica”. Tradotto per il volgo: se vuoi, se non abiti distante, se hai mai fatto un lavoro del genere. Ecco, allora potresti essere abile e arruolato.
Perché vendemmiare non è mica più questione solo di tagliare l’uva e di metterla nei contenitori, ma richiede occhio, esperienza, capacità. In altre parole richiede una formazione professionale: cioè richiederebbe che si tornasse a parlare della grande assente, di quella formazione continua, long life learning come la chiamano gli anglofili, di quelle passerelle formative tra un impiego e l’altro, di quei percorsi che dovrebbero sostituire il posto (fisso o meno, zalonianamente parlando).
Intendiamoci: non si vuol mica prendere di mira l’Assessore regionale lombardo in questione. Lui fa quel che può (e se sia molto o poco lo decidono gli elettori, mica noi). Ma è che il sistema inventato dai pentastellati (e per la verità votato e difeso anche da quella Lega in cui milita il Rolfi di cui sopra) è “in sé” una sciagura.
Perché esso parte dall’assunto che i soldi siano infiniti e quindi vadano distribuiti a pioggia: mentre andrebbero certo distribuiti, ma facendo sì che ognuno compartecipi con il lavoro all’ingrandimento di quella torta le cui fette dovrebbero sfamare ogni essere umano.
Ecco, se potessimo e fosse utile, chiederemmo di fare una legge per il lavoro di cittadinanza universale: perché quando si lavora ci si sente pienamente umani. Quando si vive di sussidi e di redditi, forse una domanda di senso urge e si fa strada in qualche recondito anfratto del nostro io. Ma essa finisce spesso per essere messa a tacere dalla banalità del “è la via più breve e facile”, e essere così soffocata. Magari proprio in quelle discoteche dove il Covid non è il solo ospite indesiderato.