L’Italia dovrebbe incrementare i fondi dedicati alle politiche attive del lavoro e rafforzare la cooperazione tra autorità nazionali e regionali per fornire un accompagnamento più adeguato alle persone che cercano lavoro e ridurre l’alto tasso di disoccupazione. Una situazione, questa, nota da tempo agli operatori del settore e, almeno nelle dichiarazioni, alla politica ma che ci é stata ricordata, nero su bianco, da un nuovo studio Ocse pubblicato solo pochi giorni fa.



Il rapporto dal titolo “Rafforzare le politiche attive del mercato del lavoro in Italia” mostra, ancora una volta, come l’Italia si trovi di fronte a sfide, nell’ambito delle politiche per l’occupazione, più importanti che la maggior parte degli altri paesi Ocse. Il tasso di occupazione e la produttività del lavoro sono, infatti, estremamente, bassi, la disoccupazione giovanile è ancora intorno al 30% e il divario occupazionale tra uomini e donne così come la disoccupazione di lunga durata diminuisce solo lentamente. Le note disparità regionali sono, inoltre, alte e persistenti rispetto alla maggior parte degli altri paesi dell’Ocse.



Il problema, peraltro, non sembra essere solo quantitativo ma anche qualitativo. Il problema, insomma, non è solo che spendiamo poco, ma lo facciamo in maniera non efficace. La spesa per politiche attive del mercato del lavoro (0,51% del Pil) è, ad esempio, vicina alla media Ocse, ma ben al di sotto della media dei paesi dell’Unione europea e di paesi con tassi di disoccupazione simili. Inoltre, le risorse per le politiche attive del mercato del lavoro si concentrano, in particolar modo, su incentivi all’occupazione e non su programmi più efficaci come l’orientamento e la formazione dei gruppi di disoccupati più svantaggiati. Solo il 2% del budget è, in questo contesto, speso in servizi che si sono dimostrati più efficienti in termini di costi a livello internazionale, come l’intermediazione di lavoro , l’inserimento lavorativo e i servizi correlati.



In questo quadro interviene la recente introduzione del Reddito di cittadinanza che ha (o perlomeno si proponeva di) aggiunto ulteriori responsabilità ai Centri per l’impiego, in quanto i nuovi beneficiari dovrebbero ricevere, al fine di uscire da una condizione di povertà o perlomeno di forte disagio, adeguate misure di supporto e accompagnamento nella ricerca di un nuovo lavoro. Il miglioramento del funzionamento e delle prestazioni del sistema dei servizi per l’impiego sembra dunque essere oggi più urgente che mai.

È iniziata così la classica partita tra Stato e Regioni (e sempre più spesso tra le stesse amministrazioni territoriali) per definire un modello “ideale” di gestione dei servizi e delle politiche del lavoro. In questa “competizione” si inserisce l’Accordo tra Regione Toscana e Cgil, Cisl e Uil per il potenziamento, nella regione (ex?) rossa, dei Centri per l’impiego con la definizione di nuove norme sul reclutamento del personale. Saranno infatti ben 709 le assunzioni previste in tre anni, da qui al 2021, nei Centri per l’impiego toscani.

Nel protocollo firmato le parti hanno convenuto, in particolare, che, nel rispetto delle normative sull’accesso al pubblico impiego, venga comunque valorizzata l’esperienza e la professionalità maturata dagli operatori che da tempo si occupano di politiche attive del lavoro e che in questi difficili anni di crisi socio-economica hanno già lavorato nel settore.

Si immagina, insomma, una via toscana alla selezione dei “navigator” che passi principalmente dalla valorizzazione delle competenze maturate sul campo da professionisti che hanno operato, negli anni, in diversi contesti sia pubblici che privati e non solo su uno schema, immaginato a livello nazionale, “totocalcio” dove a vincere sarà (probabilmente) il più fortunato. Spendere bene nelle politiche attive, infatti, significa anche selezionare le risorse umane migliori presenti in una realtà e non assumere impiegati di un improbabile “collocamento 2.0”.