Ci sarà anche la crisi ma i ristoranti sono sempre pieni di gente. Il vecchio adagio berlusconiano non è più vero in tempo di crisi da virus. Tutti i servizi che abbiamo sviluppato per vivere al meglio la nostra socialità soffrono terribilmente. L’indicatore che ci fa dire che cresce un po’ il patrimonio degli italiani è l’aumento dei depositi nei conti correnti che si è registrato nei tre mesi passati. Certo il lockdown, in un Paese che è già fra quelli che hanno la maggiore propensione al risparmio, ha portato a contenere le spese e, chi ha potuto, ha fatto la cicala accantonando riserve in vista di un autunno che tutti, tranne il nostro presidente del Consiglio, sanno che sarà difficile.



Come emerso da più commentatori, la crisi l’hanno pagata subito gli ultimi della fila. Chi aveva contratti a termine o di collaborazione è stato messo subito fuori dal mercato del lavoro senza alcuna tutela. Chi invece è protetto dalla legislazione, che ha dato cassa integrazione più il blocco dei licenziamenti, ha, per ora, limitato i danni in attesa di capire solo dopo l’estate l’effetto della crisi nel suo settore di lavoro.



Di fronte a una crisi così trasversale e asimmetrica il nostro sistema di welfare, legato a un rapporto stretto fra lavoro dipendente e garanzia di ammortizzatori sociali per le crisi, ha mostrato tutte le crepe che il mutamento del lavoro nel corso di questi anni ha introdotto.

Solo i lavoratori della grande Pubblica amministrazione italiana possono stare a casa, tutelare la salute con regole sindacali (si veda il vergognoso caso della scuola) che perdono di vista lo scopo del lavoro, pieno stipendio e scarsa o nulla attività per lunghi periodi. Ciò a fronte di settori pubblici dove invece, pur con scarso riconoscimento economico, abbiamo assistito a un’abnegazione sul lavoro che è stata giustamente definita eroica.



Ma i parvenue della politica al governo del Paese, invece di riflettere su quanto la realtà metteva davanti agli occhi, e cioè che cambiato il lavoro va ripensato il sistema di tutela del welfare che deriva dal lavoro, hanno proseguito lungo la strada dei contributi al reddito per debellare la povertà.

Ignorando qualunque analisi sui risultati del Reddito di cittadinanza, che non ha contribuito a riportare al lavoro nessuno e non ha nemmeno cancellato la povertà, si è inventato un ulteriore contributo definito Reddito di emergenza. Il Rem dovrebbe servire, nel corso della crisi particolarmente acuta aperta dal virus, a distribuire a quei poveri più poveri, fuori dal Rdc qualche centinaio di euro per almeno due mesi.

Già il famoso Rdc, nonostante la grande campagna informativa di lancio, non ha raggiunto più del 50% di quanti si riteneva che avrebbero fatto domanda. Oggi il Rem è fermo a meno di un terzo rispetto a quanto previsto dal decreto governativo e inoltre quasi il 20% delle domande viene respinto perché manca un documento (dichiarazione sostitutiva unica, un nome che è un ossimoro) con validità.

Il mix di populismo cialtrone e sinistra populista non è in grado di comprendere che le politiche contro la povertà non possono ridursi a semplice distribuzione di fondi. In primo luogo, i poveri, nel senso di famiglie sotto un certo livello di reddito e nell’indigenza, sono meno numerosi di quanto emerge dalle indagini sulla disuguaglianza. Ma soprattutto la domanda che viene da molti, che pure vivono i problemi della povertà, è in primo luogo, di aiuto per uscire dalla condizione di bisogno e riacquistare una piena autonomia. Il welfare che serve è quindi certamente fatto anche dal sostegno al reddito, ma prima di tutto da servizi di accompagnamento per una proattivazione di risorse umane che portino a riacquistare un ruolo sociale autonomo.

Fra una possibilità di lavoro, anche se precario o addirittura totalmente fuori mercato, e qualche euro senza aiuto per riuscire dal bisogno, prevale il sentirsi utile con un lavoretto qualsiasi. E ciò anche al netto dei furbi che cercano di tenere sussidio e lavoro non dichiarato.

Un nuovo welfare che assicuri interventi di ammortizzatori sociali e sussidi di sostegno al reddito non può essere slegato dal fornire servizi di proattivazione delle persone ed essere orientato a dare autonomia attraverso l’accompagnamento a una collocazione lavorativa. Più questo servizio è rivolto alle fasce sociali più povere, più vi è bisogno di una capacità di accoglienza e accompagnamento che può trovare nel grande mondo del Terzo settore del nostro Paese quell’esperienza di presa incarico del bisogno e di proporre percorsi di recupero di autonomia personale, lavorativa ed economica delle persone.

È un vero progetto di inclusione sociale che si deve proporre. I soli sussidi non sono utili per sconfiggere le povertà. E non c’è bisogno di comitati di esperti. Basterebbe stare nelle realtà che già lavorano per progetti di inclusione e avere il coraggio di mettere in moto ciò che già c’è nella nostra società invece di pretendere sempre di inventarsi nuovi servizi statalistici che si rivelano incapaci di fare sistema con chi ha già la capacità di affrontare i nuovi bisogni.

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