I tempi sono difficili, ma la confusione è tanta. Il Governo starebbe lavorando all’introduzione di un reddito di emergenza che, secondo le prime stime, servirebbe a sostenere il reddito di almeno 10 milioni di cittadini, tra i quali gli appartenenti alle seguenti categorie: professionisti; lavoratori stagionali del settore turistico (camerieri, personale di cucina, bagnini e assistenti vari, personale di piano, portieri e così via); badanti e colf; tutti i lavoratori del sommerso.
L’iniziativa prende avvio da una sollecitazione del ministro Giuseppe Provenzano che in una recente intervista ha sostenuto la necessità di adottare, in caso di prolungamento della crisi, “misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili, le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero”. Il problema esiste e già cominciano a manifestarsi, soprattutto nel Mezzogiorno, episodi di “esproprio proletario” nei supermarket che potrebbero diffondersi rendendo difficile assicurare la fornitura di generi di prima necessità in modo civile e ordinato. Sappiamo bene che in casi siffatti anche le forze dell’ordine avrebbero dei limiti oggettivi nel garantire la proprietà e la sicurezza dei dipendenti.
Il Governo ha annunciato lo stanziamento di 4,5 miliardi in favore delle amministrazioni comunali e di qualche centinaio di milioni per le misure più urgenti (come buoni spesa, fornitura diretta di generi alimentari, ecc.). Anche in una situazione come l’attuale, dov’è difficile pianificare oltre la giornata, proprio perché l’emergenza è destinata a durare più a lungo delle più ottimistiche previsioni, è indispensabile individuare i soggetti che si intendono tutelare e le modalità per farlo con una certa razionalità.
Sul versante del lavoro dipendente (oltre al blocco temporaneo dei licenziamenti collettivi e individuali per motivi economici) dovrebbe operare la cassa integrazione, fino a coprire anche i settori che ne sono privi attraverso la cig in deroga. Qui sorge un primo problema che concerne le colf e la badanti, per le quali è chiarito che possono continuare a prestare servizio, a prescindere dalla convivenza. Si parla di un milione di persone, soprattutto straniere e donne, solo a considerare quelle in regola, provviste di un contratto di lavoro. Sappiamo che, in molti casi, è frequente che a un rapporto regolare se ne aggiungano altri in nero, allo scopo di salvare la capra del permesso di soggiorno e i cavoli del maggior reddito da inviare in patria. Queste lavoratrici oggi se ne stanno a casa sul divano, non perché vogliono fare la quarantena, ma perché, nella maggior parte dei casi, le famiglie le considerano possibili “untrici” e non le vogliono a lavorare. Una colf, una badante, una babysitter con un regolare contratto sono lavoratrici dipendenti come le altre, iscritte all’Inps. Perché allora non includerle nell’applicazione della cig (magari in deroga)?
Nel caso dei liberi professionisti e dei lavoratori autonomi con la riduzione dell’attività si riduce anche il reddito. Pare sensata l’idea di affidare l’erogazione di misure di sostegno alle Casse professionali. Ma vi sono tante professioni – c.d. non ordinistiche – i cui membri sono iscritti alla Gestione speciale presso l’Inps, una delle poche che, per ragioni evidenti (molti iscritti contribuenti e poche pensioni erogate), ha dei considerevoli avanzi di gestione che potrebbero concorrere con trasferimenti da parte del bilancio dello Stato (pare che sia questa la soluzione a cui il Governo sta lavorando).
Ci sono poi i lavoratori stagionali (non solo) del settore turistico, che, non avendo ancora un rapporto di lavoro non possono avvalersi delle tutele ordinarie come la cig o la Naspi. Per loro c’è un problema di sostituire un reddito che non è possibile procurarsi perché non parte l’attività economica in cui potrebbero essere assunti. E, a meno di revisioni normative, in questi casi non sembra agevole intervenire con il reddito di cittadinanza (di cui comunque vanno aboliti i requisiti attinenti alla condizionalità).
Gli stranieri costretti a lavorare in nero sono diventati delle ombre, delle “anime morte”. Eppure anche per tanti di loro sarebbe applicabile il reddito di cittadinanza se soltanto il ministro del Lavoro si decidesse a varare i decreti attuativi richiesti. Non si dimentichi mai che su 4,8 milioni di persone residenti in condizione di povertà assoluta, 1,5 milioni sono stranieri e stanno nei gironi più infimi dell’indigenza. Il RdC è percepito da qualche centinaio di migliaia di stranieri, in generale comunitari. In sostanza, gli strumenti – almeno per i casi trattati finora – ci sarebbero, magari con qualche deroga temporanea e qualche innovazione.
Come la mettiamo, però, col lavoro sommerso? Nel caso del lavoro autonomo si potrebbero estendere le erogazioni previste – e quelle che verranno – a un obbligo di “emergere” in cambio di una sanatoria per il passato. Ma per il lavoro nero alle dipendenze non vi può essere una certificazione specifica. In qualche modo la tutela non può che fare parte di misure di carattere generale. Anche le riduzioni delle imposte e i benefici fiscali vanno in soccorso di coloro che pagano le tasse. Una parte della popolazione non se ne può avvalere perché il suo reddito non arriva al minimo imponibile. Da anni si parla di tutelare questi casi con una “imposta negativa”, ma alla fine non si è mai fatto nulla.
Cogliamo l’occasione per passare, sic et simpliciter, a un argomento affrontato in un precedente articolo, sollevando qualche polemica. Qual è stato il depauperamento del personale sanitario in conseguenza dell’accesso a quota 100? E come questa misura, insieme a tante altre cause, ha pesato sulle strutture sanitarie in occasione della crisi epidemica? Secondo quanto indicato dalla Fiaso, la federazione delle aziende ospedaliere, hanno avuto accesso alla pensione con Quota 100 682 medici e 1009 infermieri delle aziende sanitarie pubbliche, con un aumento dei prepensionamenti del 16% tra i medici e del 20% tra gli infermieri.