I tempi e l’intensità della ripresa economica sono inevitabilmente condizionati da quelli del superamento delle misure di lockdown introdotte per contrastare la diffusione del coronavirus. Eppure sono proprio i Paesi più colpiti quelli che rischiano di subire pesanti conseguenze per l’inevitabile spiazzamento competitivo dei rispettivi apparati produttivi. Obbligati pertanto a predisporre il più presto possibile le misure per la ripresa delle attività, anche per evitare le conseguenze sociali drammatiche dovute alla carenza di approvvigionamenti di prima necessità e dei servizi essenziali per le persone.
I produttori agricoli lanciano allarmi sulla difficoltà di reperire la manodopera stagionale con il rischio di compromettere le colture, i raccolti e gli approvvigionamenti per tutto il resto dell’annata. Nei territori le misure di distanziamento stanno comportando problemi serissimi per le persone anziane, in particolare quelle sole o non autosufficienti.
I due comparti citati sono accomunati da una forte componente di lavoratori immigrati e da un’elevata incidenza di lavoro sommerso. L’Istat stima questa presenza in 157 mila lavoratori in agricoltura, il 37% degli addetti per la maggior parte concentrati nel lavoro stagionale, e 884 mila nella voce altri servizi alla persona, equivalente al 77% dei lavoratori domestici. L’incidenza del lavoro totalmente irregolare viene valutata nel 17% dei dipendenti nel settore agricolo e nel 47% dei collaboratori domestici. La stima dei lavoratori sommersi viene effettuata dall’Istat in termini di rapporti equivalenti a tempo pieno (Ula). Questo significa che il potenziale dei lavoratori effettivamente coinvolti è in realtà più elevato, dato che molti di loro effettuano prestazioni a orario ridotto.
Le proposte su come sopperire alla carenza di manodopera in agricoltura variano dalla richiesta di adottare un decreto flussi straordinario per favorire nuovi ingressi di lavoratori dai Paesi extracomunitari, a quelle di introdurre sanatorie per gli immigrati presenti irregolarmente in Italia. Proposte degne di rispetto, ma del tutto inadeguate a soddisfare le esigenze. I precedenti storici evidenziano che la programmazione di nuovi flussi come le sanatorie comportano tempi lunghi di verifica per l’esame dei requisiti. Inoltre, come ho avuto più volte di documentare, tendono ad attivare comportamenti opportunistici di massa finalizzati a ottenere i permessi di soggiorno con la simulazione di falsi rapporti di lavoro, in particolare nel settore domestico.
Ma hanno anche il difetto di sottovalutare l’abbondanza di manodopera, compresa quella immigrata, già presente in Italia e destinata ad aumentare in modo significativo per ragioni facilmente comprensibili.
La gran parte dei lavoratori immigrati sommersi accertati, come evidenziato nella recente relazione sugli esiti delle attività ispettive svolte dall’Ispettorato nazionale del lavoro, era in possesso di regolare permesso di soggiorno. Per non trascurare il fatto che esiste un bacino di 700 mila beneficiari del reddito di cittadinanza che hanno sottoscritto un patto con la Pubblica amministrazione dichiarando la disponibilità ad accettare nuove offerte di lavoro. La messa in sicurezza delle condizioni di lavoro potrebbe favorire, ammesso che lo vogliano, l’accesso dei lavoratori rumeni e di quelli extracomunitari che hanno già lavorato in Italia e in possesso del nullaosta pluriennale d’ingresso per svolgere lavori stagionali.
Per lo specifico del lavoro domestico, appare più complesso identificare le implicazioni delle politiche lockdown sui rapporti di lavoro delle badanti e delle colf. Gli enti locali denunciano le condizioni di grave difficoltà che stanno incontrando numerosi nuclei familiari, in parte attenuate dal lavoro informale delle persone costrette a rimanere nelle abitazioni e dagli interventi promossi dalle associazioni del volontariato. Ma è del tutto evidente come la crisi in essere abbia messo in evidenza non solo le carenze dei servizi territoriali del sistema sociosanitario, ma anche l’arretratezza dei nostri sistemi di assistenza per le persone anziane e non autosufficienti. Prestazioni svolte in gran parte dalle collaboratrici familiari di origine straniera. La remunerazione in nero rappresenta una forma di sostenibilità del costo delle prestazioni per i redditi delle famiglie datori di lavoro. Singolare il fatto che i nostri governanti, anziché preoccuparsi di affrontare il problema del reperimento della manodopera per i servizi essenziali, si stiano arrovellando per reperire risorse per fornire un sussidio al reddito per coloro che hanno effettuato a vario titolo delle prestazioni di lavoro sommerso.
In vista del prossimo decreto previsto per la metà di aprile, finalizzato a potenziare i sostegni al reddito dei lavoratori coinvolti nelle fermate produttive, circola in questi giorni la proposta di introdurre un reddito di emergenza destinato in particolare a ex lavoratori sommersi. L’intento della proposta, predisposta da Asvis e Forum disuguaglianze e diversità, è quello attenuare i requisiti di reddito e patrimoniali, e le sanzioni per l’eventuale svolgimento di un lavoro sommerso, per consentire l’accesso di circa un milione di ex lavoratori irregolari ai benefici del reddito di cittadinanza per un periodo limitato di tempo. Nella proposta non sono evidenziati i criteri che renderebbero possibile la selezione dei potenziali beneficiari, in ragione di un rapporto di lavoro impossibile da identificare in assenza di una denuncia nei confronti del datore di lavoro, ovvero per via di una sanatoria introdotta per legge per i datori di lavoro stessi.
Resta il fatto che un’idea simile muove nella direzione opposta rispetto a quella di mobilitare un’offerta di lavoro per soddisfare fabbisogni di nuova occupazione. Da un lato si continuano a paventare fabbisogni di nuovi immigrati per soddisfarei cosiddetti lavori “che non vogliono fare gli italiani”. Dall’altro si potenziano gli interventi assistenziali che finiscono per generare comportamenti opportunistici e disincentivano la ricerca del lavoro. Quello che serve, invece, è un autentico cambio di paradigma nell’approccio al tema. Dovremmo interrogarci su come incentivare l’emersione del lavoro, per renderlo economicamente sostenibile e dignitoso, e i comportamenti delle persone che cercano attivamente il lavoro.
Ad esempio, non si comprende per quale motivo i famosi navigator, già retribuiti dall’amministrazione, non possano essere mobilitati per sottoporre le nuove opportunità di lavoro ai 700 mila beneficiari del reddito di cittadinanza che sono in condizioni di lavorare, magari assicurando loro la permanenza nei benefici al termine del rapporto di lavoro. Questo vale anche per le amministrazioni locali che sono tenute per legge a organizzare programmi di lavoro di pubblica utilità per i medesimi beneficiari.
E ancora, perché non reintrodurre i voucher lavoro, con sgravi fiscali per i datori di lavoro e per i lavoratori, da destinare ai disoccupati ovvero anche anche per i giovani nell’ambito di progetti di di servizio civile? Con la mobilitazione delle associazioni del Terzo settore, ma anche aziende erogatrici di servizi online, aziende sanitarie e farmacie, centri commerciali, servizi di pulizia, possono essere promossi programmi estremamente utili per la fase 2 dell’emergenza sanitaria: distribuzione dei materiali di prevenzione, informazione e formazione, telesoccorso, spesa a domicilio, pulizie. Un’occasione formidabile anche per sperimentare nei territori forme innovative di erogazione dei servizi alle persone. Attività che, tra l’altro, sono destinate ad avere un peso rilevante per l’occupazione del futuro.
Tutti interventi assai meno costosi di quelli che il Governo si accinge a promuovere per i sostegni al reddito, e soprattutto portatori di un’opportuna azione di pedagogia sociale utilissima per valorizzare al meglio le risorse finanziarie e umane. Forse elettoralmente meno appetibili. E che per questo motivo probabilmente non saranno presi in considerazione.