Ieri un ordine del giorno della Lega al Dl Superbonus ha dato un colpo di spugna al redditometro: l’odg “impegna il governo a chiarire la portata del decreto ministeriale, confermando il superamento dell’istituto del redditometro”. “Siamo giunti alla conclusione che sia meglio sospendere” il provvedimento “in attesa di ulteriori approfondimenti”, ha chiuso la parentesi, in serata, Giorgia Meloni. Alludiamo alla modesta proposta del viceministro Maurizio Leo che, immemore del fatidico concetto e della legge politica non scritta di non parlar mai di tasse prima delle elezioni, aveva pensato di far cosa buona e giusta preparando un decretino per proporre una regolamentazione in modo da chiudere un buco normativo lasciato in eredità fin dai tempi del governo Renzi.
È bastato che qualcuno richiamasse il termine “redditometro” per scatenare un putiferio da tempesta estiva che ha seppellito il proponente e scatenato reazioni a catena dentro e fuori il Governo.
Ad avviso di chi scrive il mini-provvedimento andava invece nella direzione opposta ai timori scatenati, volendo solo normare meglio l’iter normativo del fisco in presenza di una possibile incongruenza tra redditi dichiarati e tenore di vita del presunto evasore; un settore che, rimasto da anni senza regole, potrebbe permettere forzature proprio da parte dell’amministrazione finanziaria.
Il “redditometro” – neologismo subito vincente – nacque nell’ormai lontano 1992, quando 200 governi fa si provò – ma guarda! – a frenare l’evasione mettendo in relazione alcuni beni-simbolo con i dichiarati magri guadagni dei loro proprietari. L’idea di partenza sembrava anche buona: se hai un aereo, una Ferrari o una Lamborghini, oppure uno yacht per le vacanze, difficile che tu sia nullatenente, ma giusto il tempo della conversione in legge e i panfili salparono per Montecarlo e la Croazia, dove furono immatricolati come “esteri”, Ferrari e Lamborghini furono intestate a società di comodo oppure a novantenni senza reddito e così un po’ di casi “veri” furono risolti. Dal “redditometro” nacquero poi gli “studi di settore”, con un complicato calcolo di redditi medi al di sotto dei quali si era considerati evasori, ma anche questa norma – pur man mano emendata e raffinata in più edizioni successive – alla fine non piacque. Finì come doveva finire: in trappola restarono solo i proprietari di quelle mastodontiche Mercedes diesel con un sacco di cavalli fiscali (anche se sul mercato non valevano un tubo, essendo solitamente vecchie come il cucco). Proprio il crollo dei prezzi dei macchinoni datati (perché è sempre meglio non rischiare) favorì gli zingari – pardon, i nomadi – che li acquistarono a prezzo stracciato, fregandosene altamente per definizione di denunce, parametri e redditometri e che spesso li stanno ancora utilizzando.
Tornando a Leo, resta il fatto che l’intero schieramento politico abbia rapidamente fatto quadrato in difesa dei contribuenti tartassati, prendendo le distanze dal viceministro, a dire “giammai questo grazie a me”, a cominciare dai partiti di governo, pronti a negare qualsiasi parentela con il proponente, rimasto con il solitario e classico cerino acceso in mano.
Citazione al merito quindi per l’ex ministro dell’economia Vincenzo Visco (Pd) che si è detto – unico nel deserto – “favorevolissimo” all’idea, anche perché (qualcuno lo ha scoperto dopo) il redditometro lo aveva a suo tempo proprio tenuto lui a battesimo e quindi buon sangue non mente. L’ultraottantenne ex ministro, peraltro, si è chiesto anche lui come mai Leo abbia avuto l’ideona di tirar fuori la faccenda a due settimane dalle elezioni, confermando di essere… vecchio del mestiere.
E adesso? Adesso niente, perché sostanzialmente non cambia proprio niente, però ricordatevi che in tempi di informatica e carte di credito tutto resta “tracciato” e in futuro, chissà. A buon intenditor…
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