A due giorni dal voto per i referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento la politica torna a dividersi sul voto degli italiani all’estero e sul loro peso ai fini di un quorum che non viene raggiunto dal 1995. Nel frattempo i leader politici comunicano le proprie scelte. «Non mi recherò a votare», ha annunciato il premier, Silvio Berlusconi, mentre il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha invitato tutti a farlo alle 10 di domenica mattina, per dare un segnale forte agli indecisi. «Siamo di nuovo al muro contro muro – dice a IlSussidiario.net Giulio Sapelli -. In questa campagna referendaria da un lato ho dovuto registrare l’assoluta incapacità del governo nello spiegare le cose, dall’altro ho visto un’informazione capace solo di confondere gli italiani e una politica convinta che le sia permesso tutto, dal negare la realtà al dimenticarsi la storia».
Questa tornata si ridurrà a un nuovo scontro tra berlusconiani e anti-berlusconiani, al di là dei contenuti?
Direi di sì, anche se il Paese si meriterebbe di meglio. D’altra parte i quesiti sono stati mal formulati e hanno prestato il fianco a una disinformazione di massa. La sinistra invece, politicizzando il voto, ha ripetuto, a suo rischio e pericolo, l’errore commesso da Berlusconi alle amministrative. A questo punto, se non si dovesse raggiungere il quorum, per l’opposizione sarebbe una battuta d’arresto dopo la vittoria di due settimane fa.
Qual è il suo punto di vista a proposito dei due quesiti referendari sull’acqua?
Nella coscienza collettiva è passato il concetto che ci sia in ballo la privatizzazione dell’acqua, come se fossimo in America e non avessimo invece una legge mineraria secondo la quale le risorse del sottosuolo appartengono allo Stato. Chiarire questo equivoco avrebbe permesso fin dall’inizio valutazioni più equilibrate. Ad ogni modo, la Legge Ronchi, anche se controversa e complicata, non privatizza assolutamente l’acqua, che rimane nelle mani del pubblico. Si occupa invece della privatizzazione del servizio tramite gare di evidenza pubblica. La storia, d’altra parte, ci insegna che l’essenziale per un bene comune è la sua governance, intesa come gestione attenta a garantirne la riproducibilità.
Ci spieghi meglio.
I beni comuni non sono contendibili (non è possibile, ad esempio, dividere una foresta o una falda acquifera) e non sono infiniti. Per questo motivo ne deve essere preservata la riproduzione. Se attraverso forme di privatizzazione del servizio si possono limitare gli sprechi non vedo davvero quale sia il problema. Teniamo presente che in Italia non si parla mai di due temi: la stragrande maggioranza dell’acqua oggi viene impiegata a uso agricolo e industriale, mentre dal 30% al 60% di quella utilizzata a uso domestico viene dispersa per inefficienza della rete pubblica.
Questo ovviamente non significa che non siano necessarie Autorithy che controllino le tariffe e impediscano lo sviluppo di un “capitalismo di rapina”, come ci ha dimostrato il primo periodo della privatizzazione Tatcher e il caso di Arezzo, dove le bollette sono lievitate.
Come mai durante questo dibattito si sono confusi troppo spesso i concetti di privatizzazione e liberalizzazione?
La differenza intanto è semplice. Si può parlare di privatizzazione quando lo Stato, attraverso un processo legislativo, decide di dismettere un patrimonio pubblico affidandolo ai privati. Si parla invece di liberalizzazione quando un bene o una rete vengono messe in concorrenza. In questo caso è fondamentale il modo con cui viene attuata.
Ora, il centrosinistra, dopo aver privatizzato l’Iri e la siderurgia, solo per fare due esempi, non può dire di essere per le liberalizzazioni e contro le privatizzazioni. Siamo uno dei Paesi al mondo che ha privatizzato di più proprio grazie ai governi di centrosinistra, senza che si sentisse mai parlare di gare pubbliche.
Cosa risponde a chi invece afferma che non è giusto che i privati traggano profitti dalla gestione dell’acqua?
Sono stato presidente di una multiutility e so benissimo che i comuni non hanno le risorse necessarie per riparare la rete idrica. Con le garanzie che dicevamo prima i privati possono dare una mano. Penso però che sia naturale che chi investe abbia una redditività.
Si dovrà poi prendere una decisione sull’energia nucleare. Cosa ne pensa del referendum su questo tema?
Chernobyl avrebbe dovuto insegnarci che non si specula sulla paura della gente. Votare sul nucleare dopo Fukushima è un po’ come chiedere agli elettori di votare per la pena di morte dopo l’omicidio efferato di un bambino. Purtroppo ci siamo ricascati e una goffa moratoria non ci ha salvato da questo errore.
Personalmente penso che oggi non si possa fare a meno del nucleare, stando però attenti alla proprietà delle centrali.
In che modo?
La soluzione migliore, a mio avviso, è quella di una forma cooperativa che coinvolga tutti gli attori interessati dal rischio: soci, cittadini, imprese, comuni. Una forma capitalistica di allocazione dei diritti di proprietà mi sembra invece pericolosa perché può spingere i manager a comportamenti opportunistici. Non a caso in Giappone hanno mentito per 10 anni e forse, se non fosse arrivato lo tsunami, avrebbero continuato a farlo.
I cittadini sono poi chiamati a esprimersi riguardo al legittimo impedimento.
Se non fosse allargato anche ai ministri si tratterebbe di un provvedimento simile a quelli che esistono nei Paesi di tutto il mondo, esclusi gli Stati a Common Law. In quelli a diritto romano-germanico dove lo Stato, ahimè, prevale sulla società, i primi ministri e i presidenti non possono essere sottoposti a processo.
Come si può vedere, questi sono temi complessi di cui si può discutere seriamente solo se non prevale la demagogia. Un referendum di questo tipo rischia perciò di essere inutile, di non risolvere nulla e, se possibile, di complicare le cose…
(Carlo Melato)