Il secondo quesito del referendum del 12 e 13 giugno chiedeva di abrogare una norma che consentiva  agli operatori del servizio idrico utili relativi agli investimenti fatti. E’ il caso per esempio dell’ Acea a Roma o dell’Acquedotto pugliese. Questa norma è stata introdotta il 3 aprile 2006 dal decreto legislativo  152. Di fatto, questa norma si ispirava a uno schema di tariffe a favore dei gestori del servizio idrico che era stato introdotto proprio dal governo di Romano Prodi nel 1996 e specificamente dal ministro dei Lavori Pubblici, Antonio Di Pietro, d’accordo con il ministro dell’Ambiente dell’epoca Edoardo Ronchi.
Il primo quesito dello stesso referendum, chiamato impropriamente “per l’acqua”, conteneva anche la proposta di abrogare l’obbligo di gara anche per la gestione del trasporto pubblico locale e dei rifiuti urbani.
Va precisato che per l’acqua era possibile proseguire con le gestione pubblica a patto che fosse efficiente e in tutti i settori, quindi anche trasporti e rifiuti, non c’erano vincoli sulla natura degli operatori: potevano essere sia pubblici che privati. In pratica non c’era nessuna privatizzazione in agguato, ma si sceglieva il criterio della funzionalità della gestione a cui potevano partecipare sia pubblici che privati. Il criterio principale era la funzionalità e la liberalizzazione.
Che cosa accadrà con il risultato referendario? Ogni forma di liberalizzazione della gestione dei servizi pubblici locali viene cancellata.  In questo modo la funzionalità del servizio sembra passare in second’ordine e ritorna una difesa occhiuta dello status quo, di quello che è sempre esistito e che in diversi contesti territoriali, faceva “acqua da tutte le parti”.



Sorprende in un certo senso, anche se questo referendum è stato presentato senza caratteristiche politiche, che un principio introdotto per la prima volta in Italia da un governo e da un ministro, di sinistra, cancelli, con un impegno del ministro “rinsavito” e dei partiti dell’attuale opposizione un suo provvedimento passato.
Va detto che non c’è solo il “ravveduto” Di Pietro a ripensare al suo precedente provvedimento. C’è una sequenza di esponenti di sinistra che hanno fatto un’autentica “manovra acrobatica”. Si dà il caso che la liberalizzazione dei servizi municipali sembrava un “cavallo di battaglia” del centrosinistra della Seconda Repubblica. Linda Lanzillotta ha sempre sostenuto una riforma urgente, indispensabile per la modernizzaione di tutto il Paese, in conformità con quello che sostenevano personaggi di rilievo come Enrico Letta e Pierluigi Bersani. Il leader del Pd, quando era ministro dello Sviluppo Economico nel 2007 , espimeva la necessità di un maggiore orientamento al mercato.
Un disegno di legge delega del 7 luglio del 2006, con in calce la firma di Prodi, Lanzillotta, Bersani, Amato, Di Pietro, Bonino recitava: “Il processo, relativo ai servizi pubblici locali, deve ora essere sviluppato con una legge di delega…che attribuisca allo Stato il compito di promuovere la concorrenza”.



E’ difficile decifrare questo percorso a zig zag della nuova sinistra italiana. Non si comprende bene quale sia la ragione di questi ripensamenti o andirivieni. E’ ipotizzabile che all’interno della stessa sinistra, stia prevalendo un’ala radicale che si oppone pregiudizievolmente a qualsiasi riforma di liberalizzazione. In questo caso, si sta assistendo al consolidamento di una linea che viene espressa dalle posizioni di Nichi Vendola e di Giuliano Pisapia, eredi di Rifondazione comunista (che di fatto impallinò la signora Lanzillotta diverse volte in Parlamento sulle proposte di legge) e dei nuovi adepti di un sinistra “lunare” come i dipietristi, nelle sua varie articolazioni. Occorre infine considerare che il liberalismo supposto della Lega Nord, forza dirompente nei confronti dello Stato accentratore, a volte si affievolisce fino ad andare a braccetto con queste posizioni per la difesa del Comune come gestore dei servizi.
E’ una schizofrenia che porta a chiedersi nell’interesse del popolo italiano: mercato, stato o la “cosa” di occhettiana memoria nel futuro della sinistra italiana?

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