Ciò che più mi stupisce in questi giorni di discussione sull’acqua, è che tutto il dibattito continua a essere centrato interamente sul binomio e sulla contrapposizione Stato-mercato. Sulla gestione dell’acqua si sono formati due partiti: quello che vuole mantenere la gestione pubblica (cioè affidata alla pubblica amministrazione) e quello che vuole affidarla al mercato. Chi vuole il pubblico afferma che l’acqua non è una merce, e che non si possono fare profitti sui beni comuni che diventerebbe presto una tassa per i cittadini (verità sacrosanta, tra l’altro); chi vuole il mercato dice che pubblico significa spreco, corruzione e inefficienza.



Questa visione dicotomica è una malattia molto italiana (e latina), dove continuiamo a vedere il mondo sociale a due dimensioni, trascurando un terzo elemento (non terzo settore, attenzione) che si chiama società civile, che è invece sempre cruciale per la qualità della democrazia. Sono convinto che non si troverà una soluzione condivisa a questo tema cruciale finché non daremo centralità a questo “terzo escluso”, la società civile e alle sue espressioni anche economiche.



Perché, infatti, non immaginare e poi realizzare anche per la gestione dell’acqua una soluzione simile a quella che è emersa dalla società civile sui temi della cura, del disagio, della malattia mentale? In questi settori, che sono altre forme di beni comuni, trent’anni fa la loro gestione era totalmente in mano allo Stato (e alle famiglie); oggi gran parte di questi servizi sono in mano a migliaia di cooperative sociali che gestiscono questi servizi eticamente e relazionalmente sensibili in modo efficiente (mercato quindi), ma senza avere il profitto come movente. È la cosiddetta impresa sociale o civile, cioè un soggetto che è mosso da finalità sociali e solidaristiche, ma che non ha come scopo il profitto.



La società civile ha saputo esprimere quindi imprenditori sociali, che pur senza aspettarsi grandi remunerazioni del capitale investito, hanno voluto e saputo utilizzare il loro talento imprenditoriale per gestire beni comuni (gli imprenditori sono essenziali per gestire in modo efficiente risorse scarse). E tutto ciò è stato possibile (nei casi più virtuosi, non tutti ovviamente) grazie a una nuova alleanza o patto tra mercato, pubblico e società civile: il pubblico è ben presente, ma è un partner alla pari con imprenditori e comunità.

Per l’acqua credo che dovremo immaginare una soluzione simile: dar vita, con apposite leggi (come è avvenuto nel 1991 con la cooperazione sociale) a nuove imprese sociali per la gestione dell’acqua che siano frutto di un’alleanza tra pubblico, imprese e società civile. È ciò non significa proibire per legge i profitti alle imprese sociali (anche perché occorreranno capitali significativi), ma porre limiti a questi (non si parla di imprese “non profit” ma “low profit”), prevedere governance pluralistiche e con più soggetti coinvolti nelle decisioni, istituire profondi legami con le comunità locali interessate alla gestione dell’acqua.

L’impresa sociale, che alcuni chiamano impresa di comunità o di comunione, è la soluzione alla gestione dei beni comuni: e non solo dell’acqua, ma del suolo pubblico delle città (parcheggi), dell’energia, dell’ambiente, una soluzione perfettamente in linea con il principio di sussidiarietà.

Per questa ragione sono convinto che il giorno più importante sarà il giorno dopo il referendum, poiché se vincerà (come spero) il sì, saremo soltanto all’inizio del processo, poiché la gestione pubblica (lasciare cioè le cose come stanno) non è la soluzione, ma è il problema da risolvere. Dovremo subito dar vita a queste nuove imprese sociali, cercare insieme la soluzione al problema che non può essere conservare lo status quo, ma maggiore creatività e fantasia politica, economica, civile.