Il referendum per ottenere una legge elettorale all’inglese non si terrà. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il quesito proposto dalle Regioni governate del centro-destra. Per l’opinione pubblica è difficile comprendere le ragioni di questa decisione, e probabilmente ne è poco interessata.

Del resto, la questione sottoposta alla Corte è apparsa subito più politica che giuridica, e gli stessi protagonisti della contesa non hanno fatto molto per nasconderlo. Chi sosteneva il referendum, chiedeva alla Corte di svolgere il ruolo di facilitatore dei processi di cambiamento: consentire che, innanzi all’incapacità decisionale dell’attuale ceto governante, il popolo sovrano si pronunciasse sul punto nevralgico sul sistema rappresentativo: come scegliere chi decide per la collettività. Chi si opponeva al referendum, chiedeva alla Corte di ergersi a difensore dell’esistente: impedire il rischio di una pronuncia popolare che, con una decisione netta e definitiva, potesse dare l’avvio a mutamenti tali da sovvertire le fondamenta stesse dell’attuale quadro istituzionale.



Dal punto di vista formale, lo svolgimento della consultazione popolare non è stato consentito perché, a dispetto dei sofisticati marchingegni escogitati dai promotori, la normativa risultante è apparsa insufficiente per consentire – in caso di esito positivo della consultazione – un sistema elettorale pienamente funzionante. Si tratta di un principio indispensabile, in quanto, in un sistema parlamentare come il nostro, la legge elettorale non può mai mancare o essere manchevole in una sua parte.



Questo ragionamento, però, sarebbe del tutto condivisibile se nei precedenti giudizi della Corte vi fosse stata sufficiente stabilità. Ed invece, come disse con ammirabile sincerità un autorevole ex presidente della Corte costituzionale, Livio Paladin, in materia di giudizio di ammissibilità dei referendum “l’unica certezza è l’incertezza”. Basti ricordare, anzi, che il famoso referendum del 1993 sul sistema elettorale del Senato venne dichiarato ammissibile benché si fosse in presenza di problemi applicativi che allora la Corte considerò come meri “inconvenienti”. Disquisire allora su quanto fosse effettivamente rilevante la lacuna che è stata adesso accertata nel quesito predisposto da Calderoli, è come valutare un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: dipende dal punto di osservazione.



Il punto di osservazione, dunque, non può che essere quello della politica costituzionale. E da questo punto di vista, il veto apposto dalla Corte al referendum Calderoli può certo rallentare il corso degli eventi, ma da solo non può risolvere le fortissime criticità dell’attuale situazione. Il Parlamento è sempre più balcanizzato, incapace di esercitare i poteri ad esso attribuiti. Il Governo si regge su una maggioranza che taluno non ha imbarazzo ad affermare che sarebbe tenuta in piedi solo per raggiungere la scadenza dell’elezione del prossimo Capo dello Stato. I partiti sono in preda a convulsioni di ogni tipo e natura, rinnegando sé stessi ad ogni pie’ sospinto. La democrazia, e non solo da noi, è sempre più in pericolo perché le forze esterne alla rappresentanza politica sono sempre più invadenti e condizionanti il nostro orizzonte di vita.

La costituzione materiale, diceva Costantino Mortati, è la sintesi dei principi espressi dai soggetti dominanti. Una tesi pericolosa per chi crede nella Costituzione scritta. Ma se i principi costituzionali sono applicati a fasi alterne, la fiducia in essi vacilla sempre più. E il dilemma fondamentale diventa ineludibile: affidarsi alle sirene di chi, quasi vaticinando, pretende di comprendere i nostri problemi e di offrirci le sue soluzioni, oppure, con maggiore e più condiviso sforzo, ricostruire una democrazia vera, effettiva e davvero attenta al bene comune. La Costituzione ha riposto permanente fiducia nella nostra collettività, non smentiamola.