Ci sono almeno due fattori che rendono ragionevole il referendum che mira a modificare l’articolo 274 del Codice di procedura penale, norma che regolamenta l’istituto della custodia cautelare escludendone il ricorso laddove il rischio di commissione di reati della stessa specie non sia riferibile a delitti commessi con l’uso delle armi o di altri mezzi di violenza personale o a reati di criminalità organizzata.



Il primo dato è che le carceri italiane sono sovraffollate. Nonostante le numerose scarcerazioni decise per fronteggiare l’emergenza Covid, negli istituti penitenziari a fine maggio di quest’anno, a fronte di una capienza regolamentare di 50.780 posti, i detenuti erano 53.660 (dati del ministero della Giustizia). Di questi ben 16.362 sono imputati, cioè detenuti in attesa di sentenza definitiva.



Secondo dato: ogni anno in Italia vengono risarcite (indennizzate è il termine corretto) circa mille persone che hanno subìto ingiusta detenzione, che hanno cioè subito restrizione della libertà personale, ma che poi sono state assolte. Lo Stato sborsa per questi risarcimenti decine di milioni di euro all’anno.

La conclusione che se ne trae è che in Italia si ricorre con troppa facilità alla custodia cautelare.

Il progetto di riforma proposto dalla Commissione Lattanzi, incaricata dal ministro della Giustizia Marta Cartabia di avanzare una proposta di progettare la riforma della giustizia penale, va proprio nella direzione di trovare soluzioni alternative alle pene detentive soprattutto per i reati ritenuti destare meno allarme sociale (che sono poi quelli interessati dal quesito referendario).



La commissione propone, tra gli altri interventi, di implementare il ricorso alla messa alla prova (che prevede l’estinzione del reato in caso di risarcimento dei danni inferti alla vittima e di impegno a svolgere attività di volontariato), la possibilità di condannare il soggetto ritenuto colpevole a espiare sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, la facoltà per il giudice di escludere la punibilità per condotte seppur delittuose, ritenute essere di particolare tenuità): insomma non più il carcere a tutti i costi, ma solo come extrema ratio.

Il referendum di modifica del Codice di procedura penale persegue lo stesso scopo: consentire il ricorso al carcere solo per i fatti più gravi. Naturalmente, come spesso accade per i quesiti referendari, l’eventuale abrogazione creerebbe dei vuoti normativi che andrebbero colmati onde evitare pregiudizi anche gravi quali l’impossibilità di arrestare soggetti che, senza ricorrere all’uso delle armi o essere inseriti in contesti di criminalità organizzata, compiono comunque gravi reati (si pensi allo spaccio di ingenti quantitativi di droga) e sono oggettivamente pericolosi per la pubblica incolumità.

L’auspicio, quindi, è che, fermo il giudizio positivo sui principi che stanno alla base del quesito referendario in questione e all’indiscutibile merito di portare all’attenzione della pubblica opinione problemi non a tutti noti, si pervenga a una riforma normativa per via parlamentare.

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