Poco prima di ferragosto, mi sono trovata a chiacchierare con alcuni colleghi costituzionalisti del prossimo referendum di revisione costituzionale per il quale si voterà il 20 e 21 settembre prossimi. In quella occasione, ci siamo resi conto che condividevamo molte ragioni in favore del No al taglio dei parlamentari. Al punto da decidere di scrivere un appello da provare a far sottoscrivere anche ad altri colleghi. Così è nata l’idea del nostro appello che, pubblicato quasi in sordina, ha avuto un’eco (anche mediatica) del tutto inaspettata, avvicinandosi ormai alle quasi 400 sottoscrizioni e raccogliendo un consenso diffuso e trasversale a vari livelli di estrazione: politica, geografica, culturale e generazionale.



Ma quali sono queste ragioni per il No, apparentemente così in contrasto con il sentiment nazionale e nonostante l’approvazione parlamentare della revisione costituzionale sia avvenuta con percentuali “bulgare”?

Devo dire che se dovessi elencarle e argomentarle tutte ci si potrebbe scrivere un trattato di diritto costituzionale. È per questo che mi limito a quelle più significative.



Anzitutto, il taglio del numero di parlamentari provocherebbe una riduzione della rappresentanza parlamentare sotto tutti i punti di vista.

Dal punto di vista quantitativo perché, ovviamente, riducendo il numero dei parlamentari ciascuno di loro si troverebbe a rappresentare un maggior numero di cittadini, con evidente peggioramento della capacità di rappresentarli adeguatamente.

Dal punto di vista qualitativo perché, con l’attuale legge elettorale, verrebbero penalizzati soprattutto i partiti minori, accrescendo il potere delle maggioranze e penalizzando le diverse voci di dissenso, ancorché minoritarie.



Infine, ci sarebbero conseguenze negative anche sulla rappresentanza a livello geografico, con Regioni che vedrebbero drasticamente (e non proporzionalmente) ridotto il numero dei propri rappresentanti. Eclatante il caso di Basilicata ed Umbria, che da simulazioni fatte vedrebbero una riduzione da 7 a 3 senatori ciascuna, in sostanza meno della metà degli attuali rappresentanti.

Come conseguenza indiretta e gravissima, si avrebbe poi un sostanziale ridimensionamento del ruolo del Parlamento e della sua funzionalità, in primis dell’attività di controllo sull’operato del Governo, facendo pericolosamente pendere l’ago della bilancia dei pesi e contrappesi oggi esistenti proprio in favore dell’esecutivo.

Contemporaneamente, la riforma aumenterebbe il rischio di un potenziamento della capacità di controllo dei parlamentari da parte dei leader dei partiti di riferimento, facilitato dal numero ridotto degli stessi componenti delle Camere, assegnando, quindi, ancora maggior potere ai segretari di partito.

Dall’altro lato della bilancia, ci sono le più importanti (ma potrei dire le uniche due) motivazioni dei sostenitori del Sì: il risparmio di costi ed il recupero di efficienza.

Sul risparmio di costi non varrebbe nemmeno la pena di discutere, data l’entità risibile dei valori in gioco. Davvero pensiamo che un intervento così rilevante sulla Costituzione possa anche solo lontanamente valere il risparmio di un caffè all’anno per ogni italiano? Perché di questi importi si parla.

Veniamo poi al recupero di efficienza, che, come noto, significa impiegare un minor numero di risorse per fare le stesse cose. Ma condizione fondamentale è che le “stesse cose” siano davvero fatte. Orbene, i promotori del Sì non hanno mai spiegato come e perché un minor numero di parlamentari possa svolgere tutte le medesime – e numerose – attività previste per un Parlamento più numeroso, senza modificare in nulla regolamenti parlamentari o procedure operative interne, ma riducendo tout court “le risorse” impiegate.

Insomma: esattamente lo stesso modo di lavorare, meno risorse impiegate, eppure si otterrebbero gli stessi risultati e sarebbero svolte tutte le stesse attività, senza alcun problema. Come è possibile?

La risposta, ovviamente, è una sola: tale recupero di efficienza è ottenibile solo ipotizzando che “le risorse”, ossia i parlamentari, siano dei perdigiorno, cosicché anche un drastico taglio del loro numero non cambierebbe l’efficienza complessiva del Parlamento.

E questa, ritengo, è la vera motivazione dei sostenitori del Sì, ancorché – naturalmente – non espressa ufficialmente: fare finalmente piazza pulita di una casta parassitaria e inefficiente.   

In sostanza, cioè, questa revisione costituzionale sembra animata, più che da motivazioni politiche e di riassetto istituzionale, da un mero intento “punitivo” nei confronti dei parlamentari, intento che trova il suo brodo di coltura nel diffuso sentimento di antipolitica esploso negli ultimi anni.

La presente riforma, che è espressione evidente di questa temperie antipolitica, è altresì il segno di un’evidente confusione fra il problema della qualità dei rappresentanti ed il ruolo dell’organo parlamentare, come se modificare la struttura del Parlamento, soprattutto con drastici tagli lineari, possa magicamente portare ad eleggere solo talenti politici, anziché “parassiti perdigiorno”. E se invece accadesse il contrario? Se le elezioni premiassero solo degli incapaci, penalizzando i virtuosi?

Certo, interventi come la riduzione del numero dei parlamentari, specie se adeguatamente supportati a livello mediatico, possono avere un importante ritorno in termini di consenso elettorale. Ma proprio in ciò sta il rischio reale della riforma, che per inseguire qualche like in più, distratto e volubile, strizza l’occhio a quella democrazia diretta (basata su piattaforme on-line o social) tanto auspicata da taluni; contribuendo a togliere importanza al Parlamento, relegandolo a un ruolo subalterno a quello del Governo e, in sostanza, spazzando via decenni di costituzionalismo moderno.