“Personalmente voterò Sì, anche se non possiamo dire di essere di fronte ad un’eccellente riforma costituzionale”. A dirlo è Andrea Morrone, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bologna. “La carica anti-parlamentare della proposta a 5 Stelle” dice Morrone al Sussidiario “si è attenuata e non corrisponde più al progetto originario”. Secondo il giurista, il 20-21 settembre l’elettore sarà di fronte ad una domanda semplice, secca, come quella sulla riduzione del numero dei parlamentari. Non una “grande riforma”, è vero, ma il possibile inizio di un promettente processo riformista.



Professor Morrone, il numero di deputati che conosciamo è sempre stato in Costituzione?

No: la legge costituzionale sottoposta a referendum riguarda una modifica fatta con la legge cost. 2/1963. Fin dall’inizio il costituente aveva previsto un numero più basso di deputati e senatori e comunque rapportato al numero della popolazione. 



Perché venne introdotta quella modifica costituzionale?

Per ragioni politiche. Del resto non esistono ragioni costituzionali “pure”. Si fece quella riforma per definire stabilmente il perimetro entro il quale tutti i partiti dell’arco costituzionale dovevano muoversi. Siamo negli anni in cui, archiviato il centrismo degasperiano, i socialisti si staccano dal Pci per andare al governo con la Dc. Si ritiene che il nuovo quadro politico giustifichi il consolidamento del numero dei rappresentanti anche nelle due camere.

Adesso prevalgono ragioni politiche o ragioni costituzionali?

Come sempre il dibattito pone all’attenzione del cittadino una pluralità di motivazioni. Anche in questo caso, ritengo prevalenti le ragioni politico-istituzionali su quelle prettamente costituzionali. 



La sua valutazione?

Personalmente voterò Sì, anche se non possiamo dire di essere di fronte ad un’eccellente riforma costituzionale. Dobbiamo considerare il problema dal punto di vista della storia del paese e del contesto politico dato. E dalle posizioni dei partiti.

Ci può articolare il suo punto di vista?

La riduzione dei parlamentari è la prima di tre riforme che M5s ha propugnato fin da quando è entrato in parlamento. “Tagliare le poltrone” ha un’accezione anti-parlamentare e populistica, ma ancora più pesanti e gravi sono le altre due. Una è l’abolizione del divieto di mandato imperativo. Serve a determinare il definitivo controllo dei partiti sui parlamentari eletti.

Grave perché?

Perché significa abolire l’articolo 67 Cost. che è alla base del costituzionalismo. Il parlamentare, infatti, deve rappresentare la Nazione e senza alcun vincolo di mandato da parte di chi lo ha eletto.

E la seconda modifica pericolosa?

L’introduzione del referendum popolare propositivo per far sì che gran parte della legislazione passi attraverso decisioni del corpo elettorale. Non sono contrario alla democrazia diretta: il referendum abrogativo in Italia ha svolto una funzione importante. Però quelle tre riforme, così articolate, erano un guazzabuglio a forte vocazione populista e antiparlamentare e, soprattutto queste ultime, non stavano in piedi.

Perché “erano”? Ora non più?

L’abolizione del mandato imperativo non è mai stata calendarizzata, mentre il referendum propositivo è stato approvato alla Camera ma si è arenato al senato. 

E questo assolve la prima riforma?

È un dato di fatto: la carica anti-parlamentare si è attenuata e non corrisponde più al progetto originario di M5s. Oggi c’è soltanto una domanda secca: se val la pena, dal punto di vista politico-istituzionale, portare i parlamentari da 945 a 600. È un quesito alla portata di tutti e ciascuno può rispondere facendo valutazioni razionali.

Quali?

La prima: nella riduzione non c’è alcun vulnus sotto il profilo democratico-costituzionale. Chi lo dice sovrappone ragioni costituzionali a ragioni politiche. La seconda è che la riduzione potrà rendere migliore il lavoro del parlamento. Potrebbe anche restituirgli una maggiore centralità nel rapporto con il governo. 

Se vince il Sì dove bisognerà intervenire?

Una premessa. Innanzitutto votare Sì vuol dire rimettere in moto un processo riformista. Per questo il Sì alla riduzione è importante. Non farei l’errore, che fanno alcuni miei colleghi, di dire che questa riforma deve esistere e coesistere con le regole preesistenti, cioè, ad esempio, con le 14 Commissioni parlamentari così come sono oggi prefigurate, o addirittura che questa riforma non può essere apprezzata senza una nuova e preventiva legge elettorale. Se passa il Sì, è chiaro che le regole andranno riscritte in funzione della riduzione del numero dei parlamentari. E la prima cosa da fare è la modifica dei Regolamenti che organizzano il lavoro delle due camere. Le Commissioni, il cui numero non è scritto in Costituzione, andranno evidentemente ridotte.

Ci sarà la volontà politica di fare queste riforme?

Non lo sappiamo; d’altra parte non possiamo fare un processo alle intenzioni. Ma se vince il Sì, cambiare sarà una necessità, per rendere funzionali le commissioni esistenti. Bisognerà razionalizzare, rendere coerente la riduzione con un parlamento più centrale e più efficiente.

In concreto che cosa significa?

Si potrà tornare a discutere della riforma del bicameralismo.

Molti costituzionalisti dicono no alla riduzione dei parlamentari proprio perché manca una riforma di più ampio respiro come quella che lei dice. 

Quando il centrodestra nel 2006 e il centrosinistra nel 2016 proposero di cambiare ampie parti della Costituzione, la critica maggioritaria era che il cittadino non poteva esprimere un voto consapevole su tanti argomenti singolarmente diversi. Servivano, si diceva, riforme puntuali. Quella di adesso lo è, ma si dice no perché non è una grande riforma. Alziamo lo sguardo, per favore. 

Per andare dove? Verso il monocameralismo?

La decisione sul bicameralismo è la grande incompiuta della Costituzione italiana. Il bicameralismo perfetto viene da un mancato accordo: i democristiani volevano un senato inteso come camera della professioni, mentre il blocco socialcomunista era per una sola assemblea. Il senato eletto a base regionale riflette il compromesso delle regioni create nel ’47-48, entità senza storia e con Dc e Pci in disaccordo essendo i democristiani autonomisti convinti, mentre le sinistre avverse a qualsiasi dispersione della rappresentanza in diverse assemblee. Avere due camere sostanzialmente identiche, alla fine, fu una garanzia di equilibrio politico accettato da tutti i partiti.

Oggi che cosa significa intervenire sul bicameralismo paritario?

Le ipotesi sono due, entrambe coerenti con la riduzione dei parlamentari. Una è il monocameralismo. Se passasse il Sì, i 600 parlamentari potrebbero svolgere le loro funzioni politiche e legislative in una sola camera a Montecitorio. 

E l’altra strada?

Se si vuol mantenere il senato, si può andare verso un bicameralismo asimmetrico in cui la camera alta rappresenta le autonomie territoriali. Ma sono questioni che potranno essere affrontate dopo. Per ora accontentiamoci del fatto che il taglio dei parlamentari rimette al centro la questione del bicameralismo. 

Non teme che M5s non abbia affatto rinunciato ai suoi propositi che lei stesso ha definito pericolosamente populisti?

Tutto è possibile. Dipende dai rapporti di forza politici che si determineranno in futuro, anche se tra le due ipotesi ritengo possibile che l’iniziativa parlamentare possa essere ripresa solo sul referendum propositivo ma non anche sull’abolizione del divieto di mandato imperativo, proprio per il suo intrinseco carattere eversivo della Costituzione.

I rapporti di forza politici li determina la legge elettorale. 

Se passa il No, secondo me il Rosatellum non verrà modificato. Se passa il Sì, a quel punto sarà inevitabile intervenire anche sul sistema elettorale.

In che direzione? 

La riduzione dei parlamentari è totalmente neutra rispetto al sistema elettorale. La politica sarà libera di scegliere la legge elettorale che riterrà necessaria o opportuna da adottare, maggioritaria o proporzionale.

Le sue preferenze?

Io personalmente ritengo, non da oggi, che il collegio uninominale sia una buona soluzione per accrescere la selettività della classe dirigente, per evitare che ci sia troppa frammentazione politico-partitica e per rendere più solido il rapporto tra chi governa e chi fa opposizione. 

In che senso?

L’attuale frammentazione partitica in parlamento taglia le unghie a qualunque opposizione. Invece il maggioritario potrebbe garantire a un’opposizione più coesa strumenti maggiori di interdizione politica. Lo stesso risultato, intendiamoci, potrebbe essere raggiunto anche col proporzionale, purché corretto con una sensibile soglia di sbarramento in entrata.

Lei non vieterebbe modifiche alla legge elettorale nell’ultimo anno di legislatura?

Sono temi discussi, sui quali anche il Consiglio d’Europa e la Commissione Venezia sono intervenuti. Io non metterei vincoli giuridici, anche per rispettare l’autonomia della politica. E del resto la Costituzione sul punto non dice nulla.

Però il problema rimane.

È una ragione di opportunità, non una ragione costituzionale a impedire di cambiare le regole prima del voto. Chi ha la responsabilità delle scelte politiche, dovrebbe assumersela fino in fondo con tutte le conseguenze che ne derivano.

Pensa al Porcellum di Calderoli nel 2005?

Al Porcellum di Calderoli e all’Italicum di Renzi. Che quest’ultimo volle e approvò limitatamente alla sola camera dei deputati e non al senato non perché fosse convinto, ma per conquistare il consenso dell’opposizione interna al Pd e in vista del superamento del bicameralismo paritario. Fu un boomerang che contribuì a fargli perdere il referendum.

(Federico Ferraù)