La proposta referendaria dedicata al lavoro ha raccolto oltre 4 milioni di firme e per la CGIL è un vero successo. All’interno delle quattro proposte referendarie, quelle oggetto di interesse in questo articolo sono forse le più rilevanti: l’abrogazione delle norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti illegittimi; e l’abrogazione delle norme sulla liberalizzazione dei contratti a termine, con la reintroduzione delle causali.



La proposta referendaria arriva in un momento storico particolare: in questi ultimi anni abbiamo registrato il “picco” occupazionale, un incremento dei contratti a tempo indeterminato e una diminuzione dei contratti a termine. Tutto questo, si badi bene, non tanto per riforme economiche o del mercato del lavoro, quanto piuttosto per effetto di cause demografiche e della più grande “infornata” di assunzioni nella Pubblica amministrazione, che non si vedeva dagli anni 80’, all’epoca del “pentapartito”.



Tornando ai quesiti del referendum, in estrema sintesi si tratta di abrogare due norme che sono state oggetto di modifiche e interventi durante il Governo Renzi, per questo, senza entrare nel merito del quadro normativo di riferimento (ad esempio: i contratti a termine fanno riferimento al cosiddetto “Decreto Poletti”, poi modificato dal “Decreto Dignità” che a sua volta è stato modificato dai recenti decreti del Governo Meloni), si considera a livello mediatico la proposta di referendum come un tentativo di “abolire” il Jobs Act.

Il Jobs Act, come la “Buona Scuola”, è tra le riforme più rilevanti del Governo Renzi, ma anche tra le più odiate dagli italiani, a eccezione (credo) della Riforma Fornero. Il Jobs Act in particolare ha letteralmente distrutto il consenso del Governo Renzi e spaccato (o meglio quasi cancellato) l’elettorato di sinistra nel Partito democratico. Da un punto di vista del consenso elettorale è stata una “catastrofe”, nel Mezzogiorno una parte consistente dell’elettorato ha poi scelto di votare il Movimento 5 Stelle e la sua “semplice” (e controversa) proposta del Reddito di cittadinanza, strumento criticato soprattutto dai renziani (in prevalenza visti come “élite” da ZTL attenta solo ai migranti e alle tematiche LGBTQ+), mostrando in quel caso anche scarsa capacità di ascolto della popolazione, soprattutto quella di periferia e ai margini della società.



A mio giudizio il Jobs Act, falcidiato tra l’altro da alcune sentenze della Corte Costituzionale, rispondeva alla richiesta dell’Ocse di rendere semplici e comprensibili i costi di uscita in caso di licenziamento, in modo che soprattutto investitori stranieri (oggi direi a distanza di quasi un decennio “molto pochi”), avendo a disposizione questa informazione, potessero trasformare i contratti a termine in contratti stabili o essere più invogliati ad assumere personale a tempo indeterminato. L’obiettivo della riforma era quella di stabilizzare le persone e non “danneggiarle”, ma dal lato politico di fatto il Governo Renzi è riuscito a realizzare qualcosa che negli anni precedenti i Governi di centro-destra non erano riusciti a fare ed è per questo che una parte rilevante dell’elettorato di sinistra si è “incazzato” e la scelta del segretario Elly Schlein di firmare la proposta referendaria appare come un chiaro tentativo di riconquistare quel consenso perduto.

Un discorso diverso riguarda il contratto a termine, su cui va fatto un chiarimento (anche in questo caso in estrema sintesi). La necessità dell’utilizzo di questo strumento richiama due fabbisogni: lavori stagionali e picchi produttivi. In merito al primo caso, ovvero il lavoro stagionale, si tratta di un contratto a termine che però risponde a precise caratteristiche (quindi in questo caso possiamo intendere che esistono già delle causali) ed è innegabile che per le peculiarità del nostro mercato del lavoro tradizionalmente a vocazione turistica risulta una tipologia contrattuale indispensabile e difficilmente se ne potrà fare a meno.

Discorso differente va fatto per quanto riguarda l’utilizzo dei contratti a termine per i cosiddetti “picchi produttivi”, ovvero la necessità di disporre temporaneamente di maggior personale in caso di maggior richiesta da parte del mercato. Questo rappresenta a mio giudizio un tema e un punto condivisibile della richiesta referendaria: il contratto a termine dovrebbe avere sempre delle causali, eccezion fatta per i contratti a somministrazione da parte delle Agenzie private del lavoro.

Tale considerazione è dettata dal fatto che purtroppo nel nostro Paese un numero troppo elevato di imprese sfrutta il tema del “picco-produttivo” come modello di business, utilizzando forza lavoro come “merce” da poter scaricare appena conviene, producendo due effetti: un aggravio sulla collettività che attraverso risorse pubbliche deve ricollocare queste persone; a cui si aggiunge un secondo fattore, dato che diverse ricerche mostrano come la “precarietà” sia in relazione a un maggior malessere psichico (es. stress nelle prospettive di vita futura) e fisico (es. scarsa attività di prevenzione, consumo di cibo-spazzatura e maggior propensione ad ammalarsi).

Le causali ridurrebbero moltissimo il ricorso ai contratti a termine, l’errore del “Decreto dignità” è stato quello di averle inserite dopo i primi 12 mesi, creando il più elevato numero di turn over mai visto di contratti a termine. Questo non solo perché la norma è stata scritta male, ma anche per lo sfruttamento di manodopera non qualificata da parte di diversi imprenditori. Escludo il lavoro somministrato per un motivo piuttosto semplice: il contratto costa molto di più del contratto a tempo indeterminato e se un’impresa necessiterà di quella risorsa non per un picco produttivo la assumerà direttamente. A ciò aggiungo che nel contratto a somministrazione c’è una quota di contributi sociali che va in un fondo volto proprio alla ricollocazione dei lavoratori non stabilizzati. In questo caso, dunque, le esternalità negative non sono a carico del pubblico, ma di un fondo delle Agenzia del lavoro.

Detto questo c’è un punto che forse rappresenta l’elemento centrale della discussione. Questa proposta referendaria a mio giudizio sposta l’attenzione mediatica e politica su temi “obsoleti” del mercato del lavoro, non apre un dibattito sui temi del futuro del mercato del lavoro, quali:

  1. La gestione del lavoro da remoto non tanto all’interno dell’attuale contrattazione, ma piuttosto l’idea di un nuova forma di contratto che pone al centro questa modalità di lavorare.
  2. Come inciderà nel lavoro e nelle professioni l’intelligenza artificiale e in che modo le politiche del lavoro possono intervenire.
  3. Serve un nuovo modello di contrattazione per la popolazione migrante che intende lavorare in Italia.

Queste sono tre sfide che riguardano il mercato del lavoro del domani, non certo esaustive, sulle quali dovremmo avviare un serio dibattito a livello politico che verrà dirottato nei mesi successivi sulle proposte formulate dal referendum che rischiano di non fornire uno sguardo sul futuro, quanto piuttosto di rimanere intrappolati nel passato, pensando di garantire tutele in un mercato che forse tra qualche anno sarà completamente diverso da quello di oggi.

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