Tanto tuonò che piovve. Sul tema della riduzione del numero dei parlamentari, infatti, è almeno a far data dagli anni Ottanta che “tuonano” proposte e si intravvedono lampi sull’importanza della questione.

Il voto al referendum dei prossimi 20 e 21 settembre sul “taglio” del numero dei deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori da 315 a 200 cade pertanto “a pioggia”… E toccando terra si insinua con tanti rivoli sull’intero testo della Costituzione: così, solo per menzionare i casi più lapalissiani, l’elezione di cinque giudici della Corte costituzionale (articolo 135 della Costituzione), quella di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della magistratura (articolo 104 della Costituzione), nonché l’elezione e la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica (rispettivamente articolo 83 e articolo 90 della Costituzione). Nemmeno la revisione costituzionale, poi, sarebbe “al coperto”, dato che esso trascinerebbe con sé la diminuzione del numero di parlamentari necessario per mettervi mano (ex articolo 138 della Costituzione).



Ancora, verrebbero toccati i quorum di garanzia e in tutte le circostanze in cui siano richieste maggioranze qualificate e valori numerici assoluti, specie a tutela delle minoranze (articoli 62, 64, 72, 73, 79, 94 della Costituzione) e della stessa organizzazione interna del Parlamento, non escluse le dinamiche procedimentali delle Camere (con la riduzione, tra l’altro, dei componenti e, correlativamente, dei quorum deliberativi delle commissioni parlamentari).



Insomma, lungi dal trovarci dinnanzi ad una semplice pozza – come talora si tende a pensare –, l’acqua deborderebbe inondando tutti i rapporti numerici armonicamente connessi al tessuto della Carta.

Ebbene, ci pare opportuno che ciò si sappia, sia per portare gli elettori a un voto consapevole, sia perché, in un modo o nell’altro, ormai sta piovendo e, pertanto, fuor di metafora, sia che vinca il “Sì”, sia che vinca il “No” è necessario che il piano delle riforme venga portato avanti. In particolare, in tutti i casi sarà bene muoversi in vista dell’adozione di una legge elettorale all’altezza della situazione, vuoi per compensare la “matematica” perdita di rappresentatività dell’organo attraverso ingranaggi “inclusivi” di tipo proporzionale, vuoi, combinatamente a un impianto istituzionale idoneo a incanalare gli esiti stessi delle elezioni, all’insegna del dichiarato obbiettivo di fornire gli strumenti per una maggiore efficienza dell’azione di governo. Solo così, infatti, le occasioni di partecipazione e di miglioramento dei lavori offerte da strumenti e istituti vecchi e nuovi, lungi dall’assumere una valenza surrogatoria o compensativa, ne uscirebbero arricchite.



Quanto, dunque, al versante della “rappresentatività”, il disegno di legge elettorale il cui testo base è stato adottato alla Camera dei deputati (il cosiddetto “Germanicum” o “Brescellum”) contiene in nuce profili che potrebbero essere orientati nell’una piuttosto che nell’altra direzione: si tratta, infatti, di una legge proporzionale ma con una soglia relativamente elevata che, se mantenuta, imprimerebbe al sistema una torsione maggioritaria.

Deve inoltre tenersi presente che la clausola di sbarramento (fissata ora) al 5% si cumulerebbe, accentuandone ulteriormente gli esiti, con una riduzione numerica dell’organo che già di per sé, comprimendo gli spazi di ingresso in Parlamento, implicherebbe una maggiore difficoltà per le minoranze di poter essere rappresentate (non esclusa, si badi, la “rappresentanza femminile”).

Per non dire poi, ad uno sguardo più ampio, della sofferenza che ne deriverebbe, specie per il Senato, per quelle regioni nelle quali la parvità di seggi non consentirebbe di garantire un’adeguata “copertura” all’intero territorio regionale (si pensi, solo per fare un esempio, alla Liguria che, con la “disponibilità” di soli cinque seggi, vedrebbe “scoperto” l’intero collegio al confine con la Francia).

Peraltro, un punctum dolens assai significativo del Germanicum è costituito dalla perdurante previsione di liste blindate, le quali, impedendo agli elettori di esprimere una qualche preferenza di voto per i singoli candidati, finirebbero e finiscono per indebolire – fino al punto di spezzare – il rapporto di responsabilità politica tra elettore ed eletto, con le conseguenze deludenti che andiamo lamentando ormai da tempo. In particolare, l’impossibilità di non rieleggere chi ha male operato porterà, verosimilmente, in combinato con il ridetto “taglio”, ad una (ulteriore) dilatazione del potere delle segreterie e soprattutto dei singoli leader nella selezione degli stessi parlamentari.

Sul versante, poi, della “governabilità” a non convincere è l’asserito automatismo insito nella maggiore facilità che si avrebbe, al cospetto di numeri (più) ridotti, nel trovare l’accordo politico, non essendo detto che ciò accada in contesti conflittuali (dove anzi “la personalizzazione” della scelta può acuire la polarizzazione dello scontro); là dove, invece, sul cuore della questione legata alla funzionalità delle due Camere costituito dalla revisione dei regolamenti parlamentari ad oggi vige una assoluta incertezza.

Diversamente, sembra trovare tutti d’accordo la necessità di concentrarsi, più che sulle questioni legate alle tempistiche e alla quantità di leggi approvate, soprattutto sulla loro qualità (col che ritornandosi a quanto si osservava circa l’importanza del sistema di reclutamento dei parlamentari). È noto, peraltro, il monito sui rischi di un rallentamento dei lavori e addirittura di disfunzionalità che una riforma così tranchant potrebbe comportare soprattutto al Senato, data l’oggettiva difficoltà in cui le Commissioni potrebbero venirsi a trovare nell’adempiere ai propri incarichi (per di più, in una fase così delicata sul piano politico, ma anche sociale ed economico).

Più in generale, se pare illusorio che il taglio di per sé solo possa bastare a innescare la governabilità, guardandosi alle (altre) proposte di riforma costituzionale è dato di vedere poco o nulla al riguardo. Anzi, non è dato modo di reperire nemmeno taluni aspetti su cui vige ampio consenso, come ad esempio il superamento del bicameralismo paritario (che, anzi, la proposta di riforma in questione, costringendo ad un voto “unitario” per “il taglio” di Camera e Senato, tende a consolidare).

Per concludere, rileva problematicamente l’approccio riduzionista e fideistico della riforma, rispetto, peraltro, a quella stessa rappresentanza politica che, sia col “Sì” sia col “No”, si mirerebbe variamente e in certa misura a “sanzionare” politicamente.

Col che, come si diceva, ciò che ne risulta è l’importanza della ripresa di un discorso pubblico sul tema delle riforme costituzionali magari riprendendosi il lavoro svolto nel corso della XVII legislatura da parte sia dei due Gruppi di lavoro sui temi istituzionali e in materia economico-sociale ed europea nominati dal Capo dello Stato, sia della Commissione di esperti per le riforme costituzionali istituita dal Presidente del Consiglio.

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