L’opposizione si illude se pensa di votare Sì al referendum del 29 marzo per accelerare la fine della legislatura. “Non hanno capito, o non vogliono capire, che la delegittimazione politica non implica alcuna crisi formale” spiega Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano.
Il Capo dello Stato non scioglierà le Camere, e avrà ragione di non farlo, perché “c’è un governo in carica sostenuto da una maggioranza parlamentare”. Diverso sarebbe se la maggioranza Pd-M5s – come quella di qualunque altro partito al loro posto – si sfaldasse, senza che in Parlamento ce ne fosse un’altra capace di formare un governo.
D’altra parte “l’attuale Parlamento – spiega Mangia – proprio come nel 2014, dopo il referendum sarà formalmente legittimo, ma politicamente delegittimato”. Come sarà delegittimato politicamente anche il nuovo Presidente della Repubblica eletto nel 2022 “da un Parlamento in via di dissoluzione e formato in ampia parte da esuberi parlamentari”.
Ci sarebbe una riforma seria da fare, ma nessuno la farà, perché il tempo del buon senso istituzionale appare ormai finito.
Professore, l’eventuale riduzione dei parlamentari comporta o no una delegittimazione del Parlamento?
Comporta gli stessi problemi, e forse in termini più gravi, che si sono già avuti nel 2014 con l’annullamento della legge elettorale da parte della Corte costituzionale.
E nel 2014, pur con la legge elettorale dichiarata incostituzionale, tutto è rimasto com’era.
Sì, perché la Consulta pensò di risolvere il problema in chiusura della sentenza parlando di un misterioso principio di continuità dello Stato, una versione aggiornata del salus rei publicae suprema lex esto. In quel momento il Parlamento risultava eletto con una legge elettorale incostituzionale e alla Camera il procedimento di convalida degli eletti doveva ancora terminare.
Cito quelle parole: “Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che (…) si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: a cominciare dal Parlamento”.
Tre righe molto discutibili dal punto di vista del testo costituzionale, assolutamente apprezzabili dal punto di vista del buon senso. Oggi vale la stessa cosa. Il nocciolo del problema non sarà la regolarità formale di questo Parlamento, ma la sua legittimazione, ossia la sua giustificazione politica.
Secondo Giulio Tremonti “in seguito al referendum avremo la trasformazione di un numero elevatissimo di parlamentari in fantasmi, in morti viventi”.
È così. Così come è significativo che la delegittimazione politica non impedisca al Parlamento di funzionare. Nel 2014 il Parlamento, eletto con legge incostituzionale, ha continuato ad operare unicamente sulla base di quelle parole della Consulta, e nel 2015, dopo le misteriose dimissioni del Presidente della Repubblica, ha eletto il suo successore. Nel 2022 si replica. Episodi di questo genere cominciano a segnare una regolarità preoccupante, non crede?
Ma si può ritenere delegittimato il Parlamento sulla base del trasformismo che la riduzione potrà eventualmente comportare?
Il trasformismo in aumento non è la causa, ma un effetto della delegittimazione politica. Quello che i giornali non aiutano a capire è la sana, fondamentale distinzione tra politica e diritto. L’attuale Parlamento, proprio come nel 2014, dopo il referendum sarà formalmente legittimo, ma politicamente delegittimato. Un nota bene: in questa accezione, la “politica” non è la difesa e l’interesse della “parte”.
Dalla quale tuttavia è impossibile prescindere.
Ovviamente. L’interesse della parte c’è, ma viene dopo. Politica vuol dire rispetto del buon senso nel funzionamento delle istituzioni. Così come giurisprudenza vuol dire prudenza nell’uso del diritto. È stato Vittorio Emanuele Orlando a porre questa distinzione tra diritto e politica nella considerazione dei fatti e degli eventi costituzionali. Ma Orlando ce lo siamo dimenticato.
È normale che un partito con un consenso del 6-7 per cento nel paese abbia il 33 per cento della rappresentanza parlamentare?
Non è normale. È uno scarto clamoroso tra fatto e diritto. Da un punto di vista giuridico-formale non c’è nulla da eccepire all’esistenza dell’attuale maggioranza. Ma dal punto di vista della situazione reale, prescindendo da ogni interesse politico, è chiaro che il sistema non sta funzionando. La legittimazione delle regole si è sostituita alla legittimazione politica reale.
A chi tocca prenderne atto e farla valere?
Alla prudenza politica. Proprio ciò che sembra mancare.
Mettiamola in un altro modo. Sappiamo che il Parlamento non verrà sciolto qualunque sia l’esito del referendum. Questo quali considerazioni le suggerisce?
È evidente che l’opposizione si prepara al fuoco di fila contro il Capo dello Stato. Il quale però non può prendersi in nessun modo la responsabilità di sciogliere le Camere se sussiste una maggioranza parlamentare. È l’unica cosa certa che tiene ancora in piedi questa confusissima situazione istituzionale.
Se in questa situazione il Presidente della Repubblica sciogliesse le Camere proprio per ridare al Parlamento legittimità politica?
Con un governo in carica sostenuto da una maggioranza parlamentare? Questo sì che sarebbe un attentato alla Costituzione.
Ma i partiti di maggioranza non rappresentano la maggioranza del paese.
Vero. E tutti i guai dell’oggi derivano da questa circostanza. Anche in caso di approvazione del taglio, il Parlamento rimarrebbe al suo posto, pur essendo politicamente delegittimato. E sarebbe delegittimato non solo in termini di distribuzione del consenso sulla base dei sondaggi, ma anche dal fatto di essere stato eletto sulla base di norme abrogate, come quelle riguardanti il numero dei parlamentari.
Sembriamo in un labirinto senza uscita. Come si esce da questa impasse?
Non se ne esce. Se ne uscirebbe il giorno in cui questa maggioranza si dissolvesse, non se ne trovasse un’altra disponibile a formare un governo, e il Presidente della Repubblica, davanti a questa impossibilità, decidesse di mandare tutti a elezioni.
Prima lei ha detto: “nel 2022 si replica”. Non si riferiva evidentemente solo al fatto di eleggere un nuovo Capo dello Stato, ma anche alla legittimità della sua elezione?
Purtroppo sì. Abbiamo già oggi un Presidente della Repubblica scelto da un Parlamento eletto con legge incostituzionale. Domani avremo un Presidente della Repubblica eletto da un Parlamento in via di dissoluzione e formato in ampia parte da esuberi parlamentari. Perché tali saranno. La riforma della Costituzione si è ridotta ad un fatto di organizzazione aziendale.
Più parliamo e più la situazione appare compromessa. Ci sarebbe una riforma per ovviare a tutto questo?
Non il taglio dei parlamentari. Lo abbiamo già detto: il lavoro parlamentare si snellisce con i regolamenti, non riducendo il numero degli eletti. La cosa da fare sarebbe quella mettere in Costituzione che le leggi elettorali vanno approvate dai due terzi delle Camere, con il consenso di maggioranza e opposizione. Questa sarebbe prudenza politica. Lo capisce chiunque.
E sarebbe risolutivo?
Sarebbe certamente più sensato di quello che si sta facendo adesso. La smetteremmo con le maggioranze che riscrivono a proprio vantaggio la legge elettorale. Sarebbe una riforma dettata – questa volta sì – dal buon senso istituzionale, e per ciò stesso “politico”, di cui di parlava prima. Ma non lo farà nessuno.
Lega e Fratelli d’Italia voteranno Sì al referendum per accelerare la fine della legislatura.
Schizofrenia pura. Chi vota il taglio dei parlamentari allunga la vita della legislatura, non il contrario.
Voteranno Sì al referendum così il Parlamento delegittimato non potrà eleggere – questa la tesi – il successore di Mattarella. Si dovrà andare alle urne.
Faccio loro i miei auguri. Non hanno capito, o non vogliono capire, che la delegittimazione politica non implica alcuna crisi formale. Si leggano Vittorio Emanuele Orlando.
Del resto chi potrebbe intestarsi una battaglia politicamente improponibile come il No al taglio dei parlamentari?
La risposta è: nessuno. Bisognava pensarci prima. È come la riforma dell’immunità parlamentare del 1993: mettiamo tutti la testa sul capestro perché non possiamo evitare di farlo. Trent’anni dopo parliamo ancora del conflitto tra politica e giustizia, e non abbiamo ancora finito.
Sembra che la Meloni presenterà una proposta di iniziativa popolare per l’elezione diretta del Capo dello Stato.
Per inventarsi queste cose bisogna guardare Star Trek, che ci guida alla scoperta di strani e nuovi mondi. E che a confronto rimane, mi lasci dire, più plausibile e più coerente. Ma forse che la fantascienza non serve ad anticipare un futuro possibile? Guardi che solo vent’anni fa la situazione attuale sarebbe stata ritenuta surreale. Adesso è realtà. Siamo in terra incognita, e, almeno noi, navighiamo a vista.
(Federico Ferraù)