È la notizia di apertura di tutti i giornali oggi: la Consulta ha bocciato il referendum sull’eutanasia. E non poteva essere altrimenti per chiunque si fosse soffermato a riflettere sulle conseguenze di un parere diverso. Infatti, mentre siamo in attesa di leggere la pubblicazione della sentenza completa, già lo scarno comunicato stampa della Corte permette di coglierne tutta la profondità: “A seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.



Non è sfuggito ai Giudici della Corte quanto sta accadendo in altri Paesi che hanno reso possibile l’omicidio del consenziente; lì è possibile verificare con fatti e numeri alla mano come le norme vigenti non assicurano la tutela minima delle persone più deboli e più esposte. È vero che esistono alcuni casi in cui è facile cogliere la dimensione drammatica della sofferenza, il dolore, la solitudine, quella insopportabile fatica di vivere, che spinge a desiderare la morte come liberazione. Ma è anche vero che una norma che facilitasse l’omicidio del consenziente potrebbe facilmente ridurre le garanzie a cui ha diritto ogni persona per affrontare e superare i momenti bui che prima o poi si affacciano nella vita di tutti noi. Potrebbero venir meno nel soggetto sia le garanzie interne – la volontà e la capacità di reagire, di cercare e di trovare altre motivazioni per vivere -, che le garanzie esterne di tutela, ad esempio, davanti a una presa in carico particolarmente complessa di persone con sindrome di Alzheimer, o con gravissime forme di disabilità, ecc.
Indubbiamente la Corte si è schierata dalla parte dei più deboli, inserendosi in quella particolare fragilità che non è solo fisica, ma che riguarda proprio l’esercizio della propria volontà; uscendo da una astrattezza formale, la Corte ha messo a fuoco come talvolta le persone soffrano per una libertà malata, non più capace di decidere lucidamente e di cogliere il senso e il valore di ciò che più profondamente desiderano. Cosa vuol dire “consenziente”, riferito all’omicidio richiesto a qualcun altro, quando il mio corpo e la mia anima soffrono e vorrebbero ricevere ben altre cure, ma non sanno come chiederle.



C’è in tutta l’impostazione di questo referendum un equivoco di fondo gravissimo. Da un lato, c’è il soggetto che afferma di voler morire e per lui vale la presunzione che sia perfettamente libero, senza condizionamenti di alcun tipo; dall’altro lato, però, c’è chi è chiamato a commettere l’omicidio, che subisce invece un fortissimo condizionamento, spesso di natura affettiva, ma anche professionale, come potrebbe accadere a un medico, chiamato a somministrare un farmaco letale. È molto probabile che vorrebbe sottrarsi a questo triste compito, ma in caso di esito positivo del referendum sembra proprio che non avrebbe potuto farlo.



La Corte ha preso in considerazione due diverse fragilità, cercando di offrire sufficienti garanzie a entrambi a chi chiedeva di morire e a chi avrebbe dovuto farlo morire. È evidente il livello di tossicità di una relazione di questo tipo, che ignora il desiderio di aiuto sotteso a chi chiede di morire e il desiderio di aiuto come forma di solidarietà e condivisione di chi non vorrebbe in nessun caso essere agente di morte.

Ora non ci resta che sperare che il Parlamento, la Camera in questa fase, riveda il disegno di legge sul suicidio assistito e faccia sue queste stesse argomentazioni. Potrebbe modificarlo radicalmente o addirittura sospenderne l’iter e far decantare un ddl decisamente poco garantista dei fragili per un adeguato tempo di riflessione. Quella brutta legge non offre garanzie di nessun tipo alle persone fragili, di cui solo ieri parlava la sentenza della Consulta e al Senato comunque faremo un lavoro di revisione totale, se non riusciremo a sospendere una legge, che va contro un principio che ci è caro: sulla vita non si vota.

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