Un voto che parte svantaggiato, fin dall’apertura dei seggi. Sia perché tv e giornaloni hanno parlato di tutto, dal calibro dei cannoni russi nel Donbass agli elenchi del Copasir e ai Maneskin, pur di tacere dei cinque referendum sulla giustizia. E si sa che le cose di cui non si parla spesso sono le più scomode di tutte. Sia, infine, perché di fronte a un esercizio dell’azione penale che dai tempi di Mani pulite ha distorto a proprio vantaggio lo squilibrio dei poteri, era facile trattare l’iniziativa referendaria con quel pizzico di fastidio che spetta a tutto ciò che nasce per iniziativa dei cittadini. Come se il referendum abrogativo non fosse previsto dall’articolo 75 della Costituzione “più bella del mondo”, e come se i comitati che hanno raccolto le firme avessero usurpato alle Camere il potere di fare le leggi.
Sono tanti i tasselli che dovrebbero tornare al loro posto, non innanzitutto per rendere omaggio alle classifiche dei sistemi più efficienti. Naturalmente anche per questo, ci mancherebbe. Ma soprattutto perché l’indipendenza della magistratura, formalmente rispettata, ha travalicato in abusi che dal caso Palamara in poi hanno oltrepassato ogni soglia di decenza. Ecco perché, come scriveva il Sussidiario un anno fa, se i giudici ci giudicano, la democrazia comporta che il popolo sovrano giudichi i giudici. La politica esiste anche per questo.
Vediamoli, dunque, i 5 indiziati speciali.
Il quesito n. 1, scheda rossa, chiede all’elettore se vuole abrogare la legge Severino (approvata durante il governo Monti). Se vince il Sì, viene cancellato l’automatismo secondo cui i politici condannati sono incandidabili a qualsiasi tipo di elezione. Si restituisce ai giudici la facoltà di decidere caso per caso, se, dopo una eventuale condanna, applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici. Non si dica che si toglie potere ai giudici: è esattamente l’opposto.
Non è meno importante il quesito n. 2, scheda arancione, sulla limitazione delle misure cautelari. Con il loro Sì, gli elettori possono cancellare l’uso arbitrario della custodia cautelare, abrogando l’ultimo inciso dell’articolo 274 (comma 1, lett. C) del codice di procedura penale. La “reiterazione del reato” smetterebbe di essere una motivazione valida per la privazione della libertà degli indagati e degli imputati prima del processo. Resterebbe in vigore la carcerazione preventiva per chi commette reati gravi, mentre in quelli più lievi si valuterebbe il rischio caso per caso.
Il quesito n. 3, scheda gialla, consente di abrogare, con un Sì, il passaggio del pubblico ministro e del giudice per ben quattro volte in carriera dal ruolo di accusatore a quello di giudice terzo e viceversa. È la cosiddetta “separazione delle funzioni”, che in Italia manca. Con la vittoria del Sì, un magistrato farà tutta la vita il giudice o tutta la vita il pubblico ministero.
Il quesito n. 4, scheda grigia, permette con un sì di cancellare le norme appartenenti alla legge del 2006 che impediscono ai membri laici dei consigli giudiziari, ovvero degli organi “ausiliari” del Consiglio superiore della magistratura, di prendere parte alla valutazione dei magistrati. In altre parole, gli elettori hanno la possibilità di far entrare anche avvocati e professori universitari nei collegi che valutano l’attività dei magistrati, mentre adesso ne sono esclusi (e i magistrati si giudicano tra loro).
Infine il quesito n. 5, scheda verde, non meno importante degli altri, perché riguarda l’elezione al Consiglio superiore della magistratura. Oggi per essere eletti al Csm i candidati magistrati devono essere supportati da un numero compreso tra 25 e 50 di magistrati presentatori. E i magistrati presentatori appartengono ad una corrente, che coincide, chissà perché, con un orientamento politico. È il “sistema” denunciato da Palamara: una lottizzazione di potere che ha guastato il potere giudiziario. Con il Sì, l’elettore abroga la parte di normativa che obbliga i candidati ad essere presentati da liste di presentatori, rendendo possibile a qualunque giudice di raccogliere i voti sulla propria persona e di essere eletto al Csm.
Cinque Sì, come si vede, pieni di buone ragioni.
All’indomani della Brexit, il voto che nel 2016 decise l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, fece scalpore che molti giovani europeisti che si disperavano per dover lasciare l’Unione e dicevano tutto il male possibile dei rozzi “brexiteers”, non avessero votato. Alla domanda perché non fossero andati alle urne, tacevano, non sapendo rispondere. Resta solo da augurarsi che davanti alla cattiva giustizia e al silenzio complice, gli italiani, oggi, non facciano la stessa cosa.
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