Mancano ormai pochi giorni al voto e le televisioni non parlano ancora in modo adeguato dei cinque quesiti del referendum sulla giustizia. Sui Tg nazionali del servizio pubblico lo spazio dedicato è appena dello 0,3%, salito all’1% negli ultimi giorni. Quello che soprattutto manca è il dibattito tra le diverse posizioni, attraverso il quale il cittadino può alla fine farsi una propria opinione. Una vergogna senza precedenti nella storia repubblicana: qualcuno forse teme che si raggiunga il quorum? 



Trattandosi infatti di referendum abrogativo, perché la consultazione sia valida è necessario che si rechi a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Si vota nella sola giornata di domenica 12 giugno, dalle ore 7 alle ore 23, mentre lo spoglio delle schede – stando alle ultime indiscrezioni – dovrebbe cominciare a partire dalle ore 14 del 13 giugno. Si sarebbe potuto votare su due giorni, come peraltro sempre avvenuto negli ultimi due anni, ma la “casta” forte – quella dei “magistrati” – è più potente della “casta” debole, quella della politica. 



Il referendum, tra l’altro, è stato depotenziato dalla Corte perché il quesito sulla responsabilità civile diretta dei magistrati non è stato ammesso e neppure sono stati ammessi i quesiti sulla droga e sull’eutanasia, certo divisivi ma che avrebbero potuto maggiormente richiamare l’interesse degli elettori su tutti i referendum. Ci si sarebbe aspettati nel silenzio assordante un richiamo all’importanza dei referendum da parte del Presidente della Repubblica, quale garante della Costituzione, ma anche questo al momento è mancato. 

Tutto cospira, insomma, a farli fallire. Anche il fatto che la Lega, di fatto, sia stata lasciata sola nella campagna referendaria, nel senso che manca il sostegno sia di FdI, sia – e la cosa è a dire il vero inspiegabile – di Forza Italia, conferma il tentativo di far fallire un referendum che invece offre  un’occasione molto importante per tentare di cambiare direzione all’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, travolta negli ultimi anni da scandali imbarazzanti, si pensi al caso Palamara.  



Qualche quesito non è di facile comprensione, qualche altro può far sorgere dubbi o perplessità. Per questo nelle scorse settimane abbiamo scritto un libretto “Referendum Giustizia: tutte le ragioni per votare Sì”, pubblicato anche come ebook a poco più di due euro. Oggi vogliamo riassumere tali ragioni in uno speciale a ridosso del voto quale vademecum per tutti i cittadini che volessero informarsi per votare consapevolmente. 

Referendum Giustizia 1. Abrogazione della Legge Severino (scheda di colore rosso)

Sulla spinta di un’antipolitica dilagante, prima delle elezioni politiche del 2013 il Governo Monti adottò, su delega del Parlamento, il D.Lgs. n. 235/2012 (“Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo”). Il decreto prevede l’incandidabilità alla Camera e al Senato, oltre che al Parlamento europeo, di tutti i soggetti condannati, con sentenza passata in giudicato (cioè diventata definitiva), ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitti non colposi (dunque commessi con dolo accertato in sede giudiziaria), con l’automatica interdizione dai pubblici uffici (quindi anche dal ricoprire incarichi di Governo) per un periodo di sei anni, compresa l’esclusione dal Parlamento – se la sentenza passa in giudicato dopo l’elezione – su decisione della Camera di appartenenza del condannato. Il decreto prevede altresì che i sindaci, gli assessori, i consiglieri comunali e regionali e i presidenti di Regione vengano sospesi dalla carica anche dopo la condanna di primo grado.

Chi sostiene le ragioni del No o dell’astensione al referendum argomenta la propria posizione sostenendo che la Legge Severino impedisce a corrotti, concussi e mafiosi di accedere alle cariche elettive o agli incarichi pubblici. Per evitare l’accesso dei condannati agli incarichi pubblici la legge prevede infatti, come si diceva poc’anzi, l’interdizione automatica dai pubblici uffici della durata di sei anni, senza alcuna valutazione da parte del giudice, come invece avviene in tutti gli altri casi. Prima della Legge Severino chiunque, anche i condannati a pene superiori a due anni di reclusione, poteva candidarsi al Parlamento, ma accadeva questo: quando la sentenza passava in giudicato e qualora la pena da scontare fosse effettivamente quella della reclusione, decideva la camera di appartenenza, autorizzando o meno l’esecuzione della pena medesima. Non esisteva inoltre alcuna automaticità nell’interdizione dai pubblici uffici, ma il giudice poteva applicare questa pena accessoria nel caso lo avesse ritenuto necessario e solo se l’interdizione era prevista dal reato per cui si procedeva. E comunque decideva pur sempre, in ultima istanza, la camera di appartenenza. Oggi, con la Legge Severino, se il parlamentare è stato condannato con sentenza passata in giudicato ad una pena superiore ai due anni (anche se la stessa non prevede l’effettiva reclusione ma la possibilità di presentare istanza di affido in prova), scatta l’espulsione dal Parlamento, su decisione della camera di appartenenza, e l’interdizione dai pubblici uffici per sei anni è automatica e può persino essere retroattiva.

Come accaduto ad esempio a Silvio Berlusconi nel 2013 che si è visto applicare l’interdizione a 6 anni dai pubblici uffici, per effetto della Legge Severino, mentre in sede di rinvio – la Cassazione rinviò alla Corte d’appello per rideterminare la misura dell’interdizione – la Corte d’appello lo condannò a due anni di interdizione per effetto della irretroattività della legge penale quando questa è sfavorevole al reo.

Cos’era successo? Una disposizione amministrativa si è anteposta, superandola, alla pena accessoria prevista dal Codice penale. E così l’interdizione dei sei anni è stata applicata in senso retroattivo come misura amministrativa, cosa che non sarebbe stata possibile se si fosse applicato il Codice penale. Insomma, un cittadino dichiarato colpevole, se non è parlamentare, gode di maggiori garanzie procedurali rispetto ad un parlamentare dichiarato colpevole.

Per ciò che concerne i sindaci, ci sono molti casi di primi cittadini sospesi dopo la sentenza di primo grado, in attesa degli altri gradi di giudizio, che per effetto della Legge Severino si sono visti distruggere la vita politica prima di una sentenza passata in giudicato. Si pensi al sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà (Pd) o a quello di Catania Salvo Pogliese (FdI, ex FI). Per sindaci, assessori, consiglieri etc. non vale il principio della presunzione di non colpevolezza. Lo si riconosce al peggiore dei criminali, ma non ad un sindaco. Non c’è dubbio che il problema della sospensione di amministratori locali e regionali per sentenze non definitive, poi in molti casi smentite nei gradi successivi di giudizio, costituisca il punto dolente della Legge Severino.

Ma c’è un altro aspetto sul quale vale la pena di insistere. La Legge Severino prevede l’espulsione dal Parlamento o la sospensione dalla carica di sindaco, assessore, consigliere, etc. quale misura di carattere amministrativo, producendo tuttavia effetti penali (l’interdizione dai pubblici uffici è una pena accessoria prevista dal Codice penale per determinati reati), senza che il malcapitato possa esperire i rituali mezzi di impugnazione previsti dal Codice di procedura penale, con tutte le garanzie difensive a tutela dell’imputato.

Facciamo un esempio. Contro la pena accessoria dell’interdizione pronunciata dal giudice, l’imputato può presentare rituale mezzo di impugnazione (ricorso in appello o per cassazione); contro l’interdizione della Severino il parlamentare invece non può fare nulla. Sindaci, assessori, consiglieri e presidenti di regione possono – è vero – presentare ricorso amministrativo, che nella stragrande maggioranza dei casi viene respinto, i parlamentari invece non possono fare nulla.

Quello della Legge Severino è lo strumento più potente che la politica abbia partorito per farsi male da sola. I nemici politici che non si riescono a sconfiggere nelle urne si possono sconfiggere per via giudiziaria e ora persino con una legge, che tra l’altro introduce disposizioni amministrative, con effetti penali e senza le garanzie proprie delle norme penali. Inoltre, l’art. 28 del Codice penale prevede due tipi di interdizione dai pubblici uffici, da applicarsi solo se prevista come pena accessoria dal reato per cui si procede: quella perpetua e quella temporanea. Per quella temporanea, il limite è di 5 anni, mentre quella di cui si chiede l’abrogazione ne prevede 6. In pratica la Legge Severino supera quanto previsto dal Codice penale, senza offrire le garanzie del diritto penale.

Non è vero, dunque, che se la Legge Severino fosse abrogata avrebbero la strada spianata corrotti e corruttori, cadrebbe il meccanismo automatico dell’interdizione dai pubblici uffici e si tornerebbe alla disciplina generale, cioè all’applicazione da parte dell’autorità giudiziaria della pena accessoria dell’interdizione, nei limiti consentiti dal Codice penale. E verrebbe risolto il problema delle sospensioni di amministratori locali e regionali per sentenze non definitive.

Referendum Giustizia 2. Limiti agli abusi della custodia cautelare (scheda di colore arancione)

Molti ricorderanno il caso Tortora. Giugno 1983, veniva arrestato Enzo Tortora, il noto presentatore televisivo accusato da alcuni collaboratori di giustizia di trafficare droga per conto della Nuova camorra organizzata (Nco) di Raffaele Cutolo. Gli inquirenti di Napoli si fidarono delle rivelazioni di Giovanni Pandico (detto ’o pazzo), che leggendo sull’agendina di un’amica del camorrista Giuseppe Puca il nome di un tale Enzo Tortona (con la n), rivelò si trattasse di Enzo Tortora. I giudici istruttori ritennero credibile la ricostruzione, avallata da altri pentiti. Tortora, risultato poi completamente estraneo ai fatti, passò 271 giorni in carcere, per poi essere condannato a 10 anni di reclusione in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. L’assoluzione con formula piena arrivò in appello solo nel 1986, confermata in Cassazione un anno più tardi. Pm, giudici istruttori e giudici del tribunale di Napoli, nonostante i gravi errori commessi, furono in seguito tutti promossi.

“Il tintinnio delle manette” diventò cosa abituale nel periodo di Mani pulite. Per rendere l’idea dell’uso distorto che è stato fatto della misura cautelare carceraria in quel periodo è sufficiente ricordare alcune dichiarazioni di Francesco Saverio Borrelli: “Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Insomma, ti sbatto in galera e vedrai che così parlerai. Erano i tempi di Tangentopoli e per un politico della Dc o del Psi ci voleva poco a finire in carcere. Ma veniamo a noi.

L’oggetto del referendum è chiaro. Si tratta di limitare gli usi o per meglio dire gli abusi della custodia cautelare. Vediamo come funziona. Quando sussiste almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale (fuga o pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di reiterazione del reato), e quando il pericolo è concreto ed attuale, il Pm può chiedere al Gip l’applicazione di una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini. La difesa non può nulla, se non presentare (dopo che la misura è stata eseguita) istanza al tribunale del riesame oppure depositare allo stesso Gip istanze di revoca o di sostituzione della misura (in quest’ultimo caso solo se sussistono elementi nuovi ai sensi dell’art. 299 Cpp).

Il quesito referendario intende abrogare l’art. 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale (Dpr n. 447/1988), limitatamente alla parte in cui consente l’applicazione dell’esigenza cautelare della reiterazione del reato per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e, per la custodia cautelare in carcere, per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti.

Nel caso in cui i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, l’esigenza cautelare della reiterazione del reato varrebbe nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I Cpp, vale a dire  gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”, ma non si potrebbe più applicare  “a delitti della stessa specie di quello per cui si procede”.

Non è vero dunque che assassini, rapinatori, mafiosi o stupratori non finirebbero più in carcere: per questi reati la custodia cautelare in carcere resta ancora una misura applicabile. Si vuole però evitare che per reati meno gravi il giudice possa applicare l’esigenza cautelare della reiterazione del reato. Inoltre, non dimentichiamolo, il quesito incide solo sul pericolo di reiterazione del reato, per le fattispecie indicate, mentre le altre due esigenze cautelari (il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove) possono sempre essere fatte valere dal giudice.

Il quesito mira, inoltre, ad abrogare il ricorso alla custodia cautelare in carcere in ordine al reato di finanziamento illecito dei partiti. Diciamolo con franchezza: rispetto agli abusi che ci  sono in merito al facile ricorso alla custodia cautelare, con il referendum si vuole dare un segnale per iniziare un percorso diverso che dovrebbe evitare il più possibile l’uso del carcere preventivo.

Referendum Giustizia 3. Separazione delle carriere (scheda di colore giallo)

Dal punto di vista dell’ordinamento giudiziario si tratta senza dubbio del quesito più importante. Il quesito riguarda infatti l’abrogazione delle norme di legge vigenti che consentono il passaggio dei giudici dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa. Non è quindi corretto parlare di separazione delle carriere, ma bisogna parlare di separazione delle funzioni. La funzione requirente è svolta dal pubblico ministero che fa le indagini, cioè dalla Procura che sostiene l’accusa, quella giudicante è svolta dal giudice di tribunale, di Corte d’appello o di Cassazione che giudica l’imputato. Il testo del quesito riguarda l’abrogazione di alcune disposizioni di legge a partire dal Regio decreto n. 12/1941 (quello sull’ordinamento giudiziario), fino alla nuova disciplina dell’accesso in magistratura (D.Lgs. n. 160/2006) e gli interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario (d.l. n. 193/2009 convertito con modificazioni nella legge n. 24/2010). 

Sino alla riforma del codice di procedura penale (Dpr n. 447/1988), pubblico ministero e giudice erano seduti in aula sullo stesso scranno, in un sistema inquisitorio in cui l’inquirente era una sorta di para-giudice che si poneva al di sopra della difesa, la quale doveva dimostrare l’innocenza dell’imputato. Le cose cambiano con la riforma del codice di procedura penale alla fine degli anni Ottanta e con la riforma dell’art. 111 della Costituzione nel 1999, cioè con la trasformazione del processo penale da inquisitorio ad accusatorio (secondo cui la prova si forma nel dibattimento in condizioni di parità tra accusa e difesa), ma l’ordinamento giudiziario è rimasto ancora quello degli anni Quaranta, con l’intercambiabilità delle funzioni giudiziarie. 

Ad oggi l’accesso in magistratura consente al vincitore del concorso di optare per la funzione prescelta e cambiarla fino a quattro volte nel corso dell’intera carriera, con un intervallo di almeno cinque anni da un cambio all’altro. Può un ex pubblico ministero essere davvero equidistante quando passa dalla funzione requirente a quella giudicante? Crediamo di no, visto che il modus operandi adottato nelle due funzioni è diverso (uno è abituato ad accusare, l’altro a giudicare con terzietà). 

L’abrogazione proposta dal quesito aprirebbe pertanto la strada alla netta separazione delle funzioni dei magistrati e sarebbe una decisione più coraggiosa di quella prevista dalla riforma Cartabia, la quale comunque riduce a uno i cambi previsti. Nel caso in cui al referendum vincesse il sì all’abrogazione, una volta intrapresa una delle due funzioni – requirente o giudicante – il magistrato non potrebbe più optare per l’altra. Ciò garantirebbe la piena realizzazione del principio del giusto processo, secondo cui ogni processo si deve svolgere “davanti a giudice terzo e imparziale”. 

Nei confronti di chi oggi, contro questo quesito referendario, grida all’attacco alla indipendenza della magistratura, vale la pena di ricordare quanto disse Giovanni Falcone – giudice simbolo della lotta alla mafia – in un’intervista del 3 ottobre 1991: “Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato”.

Referendum Giustizia 4. Equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali (scheda di colore grigio)

Presso ciascun distretto di Corte d’appello sono istituiti i consigli giudiziari distrettuali, detti anche mini-Csm. Sono composti per lo più da magistrati, ma anche da professori universitari in materie giuridiche e avvocati. Si tratta dunque di un organo che rispecchia la composizione “mista” del Csm, così da garantire al suo interno la rappresentanza di tutti gli attori della giustizia. Tra le funzioni dei consigli giudiziari c’è anche quella della valutazione sulla professionalità dei magistrati, dal cui voto sono però esclusi professori e avvocati. E così i giudici si giudicano tra loro e si finisce col promuovere tutti, con giudizi super favorevoli.

Le norme interessate dal quesito abrogativo sono alcune di quelle contenute nella legge che istituiva il Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, vale a dire il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150. In caso di abrogazione delle norme oggetto del quesito, avvocati e professori universitari facenti parte dei Csm distrettuali potranno esprimere, al pari degli altri componenti, la loro valutazione in ordine alla professionalità dei magistrati che prestano servizio nel distretto.

Come dice una vecchia locuzione latina, “canis canem non est” e quindi l’obiettivo del referendum è evidente: smantellare il corporativismo giudiziario ed evitare l’autoreferenzialità della magistratura, in modo che non siano solo i giudici a valutare i giudici, ma anche altri importanti protagonisti del settore come appunto professori in materie giuridiche e gli avvocati. Del resto, non si capisce perché questo debba valere per il Csm, dove decidono anche professori e avvocati, e non per i cosiddetti mini-Csm.

Referendum Giustizia 5. Sistema di elezione del Csm (scheda di colore verde)

Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, presieduto dal Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’art. 104 della Costituzione, i componenti del Csm “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. I primi sono detti membri togati, i secondi laici.

I membri laici non hanno bisogno di candidarsi, sono infatti eletti autonomamente dal Parlamento tenuto conto dei soli requisiti indicati dalla Costituzione: vanno scelti tra i professori universitari ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio.

Per i membri togati esiste invece una procedura particolare, regolata dall’art. 25 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura). Il terzo comma dell’art. 25, oggetto di quesito abrogativo, prevede che i magistrati che intendono candidarsi al Csm presentino la loro candidatura in “una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta”. Insomma, se un magistrato si vuole candidare al Csm deve aderire necessariamente ad una “corrente”, rendendo possibili in questo modo vere e proprie fazioni politiche all’interno della magistratura.

È da qui che nasce il “sistema delle correnti” che dal 1992 in avanti, sull’onda delle inchieste di Tangentopoli, è servito alla magistratura per intervenire – direttamente o indirettamente – nel processo democratico del Paese, condizionando talvolta le sorti di Parlamento e Governo. Se il quesito abrogativo sarà approvato, cioè se vinceranno i Sì, i giudici che vorranno candidarsi al Csm potranno presentare liberamente la propria candidatura senza raccogliere firme e quindi senza aderire a fazioni politiche.

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