Una riforma che per punire la politica punisce il Parlamento, dice Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, commentando il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. “Equivale, mi lasci dire, a prendere a calci l’automobile perché il pilota è scarso”. Il taglio peggiorerà il sistema politico italiano e suoi eventuali sviluppi ulteriori potrebbero essere ancora più gravi, se saranno quelli che vuole M5s.
“L’unica riforma seria da fare” spiega Mangia “sarebbe quella di sottrarre alla maggioranza del momento il potere di scriversi la legge elettorale che gli fa più comodo, imponendo il quorum dei due terzi”.
Professore, Sì o No al taglio dei parlamentari e perché?
Se la mette così, le dico subito No e con facilità. Perché a favore del taglio stanno solo motivazioni di tattica politica dei singoli partiti, 5 Stelle compresi, i quali sono riusciti a portare sulle loro posizioni prima la Lega, in cambio dell’autonomia differenziata, e poi il Pd, in cambio del patto di governo del settembre 2019. E della promessa di una nuova legge elettorale.
D’accordo, ma nel merito?
Non c’è nessuna evidenza scientifica che il semplice taglio dei parlamentari migliori rappresentatività ed efficienza delle Camere. Queste sono petizioni di principio cui è difficile rispondere in modo sensato.
Che cosa intende?
“In dieci si gioca meglio” era una battuta ricorrente di Niels Liedholm quando gli espellevano un giocatore. Ma ai tempi era chiaro che si trattava di una battuta. Adesso invece non solo quella battuta la si prende sul serio, ma si scopre che Liedholm è stato un grande costituzionalista del passato. Tanto da essere il vero padre nobile di questa riforma.
E i risparmi?
È da un anno che si è capito che i 500 milioni a legislatura sono poi 100 milioni scarsi all’anno. E siccome quei 100 milioni sono lordi, si scopre che alla fine i risparmi sono, all’incirca, di 60 milioni all’anno. Che, in un paese di 60 milioni di abitanti, non mi pare proprio un grande argomento. Però lo si ripropone ancora. Segno che non c’è molto di più.
Una domanda leggermente diversa: chi vincerà e perché?
Io non faccio il sondaggista, e nemmeno ho la sfera di cristallo. È chiaro che dopo trent’anni di delegittimazione della politica, la tentazione può essere quella di votare un Sì punitivo. È che se delegittimi le forme tradizionali della politica, poi che cosa ti resta? Qualcuno che fa politica c’è sempre, solo che la fa in sedi diverse da quelle pubbliche.
Il ruolo di M5s?
Arrivare a questo referendum è stato un loro capolavoro. Da un Sì guadagneranno ossigeno, visto che le previsioni sulle Regionali non appaiono per loro troppo rosee. Non mi aspetto una grande affluenza ai seggi in tempi di Covid. E non vedo nemmeno un grande interesse. È una riforma che rischia di passare in sordina e che, alla fine, porterà solo ad una riduzione dei gruppi parlamentari.
E non è un bene questo?
Per lo svolgimento dei lavori parlamentari in Commissione non lo sarà affatto, in assenza di una riforma dei Regolamenti interni. Anzi. Però sarà più facile per i partiti – o meglio per le segreterie di partito – controllare i rispettivi gruppi. Gruppi troppo ampi e compositi sono un problema per i partiti.
Non è sempre stato così.
No, infatti. Lo è almeno da quando i partiti sono diventati partiti personali, che selezionano i loro rappresentanti sulla base di un criterio di fedeltà al capo. Ha ragione Giulio Sapelli a dire che ormai la cifra del sistema politico italiano è diventato il caciquismo sudamericano.
Vale a dire?
Oggi non abbiamo più partiti strutturati che formano e selezionano un personale politico. Tangentopoli ci ha lasciato compagnie di ventura guidate da cacicchi locali che si affrontano senza strategie a lungo termine. E che devono mandare in Parlamento masse di manovra di fedeli. Gruppi più piccoli e compatti sono più facili da manovrare.
Viene da qui l’ambiguità delle posizioni dei partiti sul referendum?
Certo. In fin dei conti gli fa comodo e gli semplifica la vita. Che poi questo, a lungo termine, significhi un grosso passo avanti verso lo smantellamento del sistema parlamentare interessa poco. Quel che importa sono gli effetti politici a breve.
Leggiamo, soprattutto da parte di chi si oppone alla riduzione, che essa non ha senso perché non è inserita in una riforma più ampia, ad esempio quella di un superamento del bicameralismo. Le sue osservazioni?
È piuttosto vero. In sé il taglio non ha un gran senso. Ma ha senso se collocato all’interno di un triangolo fatto di taglio dei parlamentari, potenziamento della legislazione popolare ed eliminazione o revisione del libero mandato del parlamentare. Nel progetto originario di M5s stavano – e stanno ancora – proprio queste cose.
Infatti questo taglio fino ad un anno fa è andato di pari passo con la riforma della legislazione popolare.
Lei capisce che portare ogni anno i cittadini a votare in referendum su leggi popolari, tagliare i parlamentari e vincolare in Costituzione i parlamentari alle direttive di partito una sua logica ce l’ha.
Lei come la chiama?
È la logica della sostituzione della democrazia parlamentare con la democrazia diretta. In realtà questa è la versione pubblicamente spendibile del progetto, la cui diffusione in è affidata ai vari Fraccaro e Di Maio. Alla base di questo discorso sta in realtà un pensiero diverso, a metà tra la futurologia e la cibernetica, per cui i parlamenti sarebbero destinati alla soffitta, sostituiti dal plebiscito continuo di cittadini connessi dai palmari sui social.
Ne è sicuro?
Basta vedersi certi filmati in rete su Gaia e su Prometeus (senza h) della Casaleggio e Associati per rendersi conto che dietro a certe idee sta un nucleo che non può essere proposto direttamente senza essere confinati nell’ambito dell’irrilevanza visionaria. Ma quello è alla base di tutto. La Piattaforma Rousseau, ad esempio, viene da lì.
Dunque secondo lei M5s non ha rinunciato al suo progetto a tre gambe?
Direi proprio di no. Tant’è vero che alla riforma della legislazione popolare – le tornate referendarie annuali, insomma – manca un solo voto un Parlamento. Quello sarà il passaggio successivo. E quello dopo ancora sarà la riforma del mandato parlamentare.
Però non se ne parla.
Che non se ne parli ora è solo perché non è politicamente opportuno in questo momento. Ma mi pare che nulla sia cambiato.
A proposito di poltrone: come giudica la vicenda pentastellata del doppio mandato e del mandato zero?
Quel che è divertente è che ogni esponente politico che propaganda la riduzione delle “poltrone” alla fine parla sempre e solo delle poltrone degli altri. E mai della sua. Però capisce che qui siamo al di fuori del diritto costituzionale in senso proprio, e ci muoviamo su un piano che sta a metà tra la cronaca di costume e la sociologia della politica.
È di ieri la notizia che il Pd ufficializzerà la sua posizione sul referendum in una direzione nazionale il 7 settembre. Aveva detto di essere per il Sì.
Il Pd su questa riforma è in grave difficoltà, visto che la sua base è, in larga misura, parlamentarista. Ed ha avversato questa riforma nei mesi precedenti. Solo che da una parte sta l’accordo di governo e la promessa di una nuova legge elettorale; dall’altra un bel pezzo del suo elettorato. Tant’è vero che adesso il Pd, dopo essere stato per trent’anni maggioritario, ora vuole una legge elettorale proporzionale. E in contemporanea rispolvera certi vecchi discorsi in cui il taglio dei parlamentari doveva accompagnarsi al maggioritario in una logica da democrazia d’investitura di tipo francese.
Ecco, la legge elettorale. Cosa pensa nel merito?
Sarebbe ora di smetterla con le manomissioni continue della legislazione elettorale in prossimità delle elezioni. L’unica riforma seria da fare sarebbe quella di sottrarre alla maggioranza del momento il potere di scriversi la legge elettorale che gli fa più comodo, imponendo il quorum dei due terzi. Ma figurarsi se questo mai avverrà.
È la seconda volta che il parlamento vota per autolimitarsi: la riforma dell’immunità parlamentare nel 1993 e adesso il taglio dei parlamentari. È un accostamento arbitrario?
Per niente. Questa riforma è figlia di Tangentopoli e ne rappresenta in qualche modo il completamento. È da allora che si è risuscitata la tradizione dell’antiparlamentarismo italiano, sulla base dell’equazione tra classe politica e Parlamento. E i frutti di quella resurrezione sono ora sotto gli occhi di tutti.
Ci spieghi questo punto.
Il messaggio è che per punire la politica bisogna colpire il Parlamento. Il che, mi lasci dire, equivale a prendere a calci l’automobile perché il pilota è scarso. Ma a questo siamo arrivati. In realtà questa è una riforma che, in mancanza di sviluppi ulteriori, ratificherà soltanto il caciquismo del sistema politico italiano e la riscrittura continua della legislazione elettorale, in perfetto stile sudamericano. Altro non produrrà.
(Federico Ferraù)