Nel 2001, in occasione della prima effettuazione in assoluto del referendum costituzionale previsto dall’articolo 138 della Costituzione, i cittadini furono chiamati a pronunciarsi sulle modifiche al titolo V della parte II della Costituzione, sostenute dal centrosinistra. Votò il 34% degli aventi diritto e il 64% lo fece per il “Sì”, confermando la modifica approvata dal Parlamento.



Nel 2006, la seconda occasione del referendum costituzionale fu per la riforma avviata e sostenuta dal governo Berlusconi, allorché i cittadini furono chiamati a pronunciarsi su una cospicua serie di modifiche alla parte II della Costituzione. Votò il 52% degli aventi diritto e il 61% lo fece per il “No”, contrastando la scelta del Parlamento.



Nel 2016 fu la volta della riforma auspicata dal governo Renzi, per cui i cittadini furono nuovamente chiamati a pronunciarsi su una cospicua serie di modifiche alla parte II della Costituzione, sotto il titolo di “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. Votò il 65% degli aventi diritto e il 59% lo fece per il “No”, smentendo, anche in questo caso, la riforma approvata dal Parlamento.



Il 20 e 21 settembre prossimi saremo chiamati a pronunciarci, sempre mediante referendum, sulle “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvate in via definitiva dal Parlamento sul finire del 2019, con maggioranze politiche diverse nel corso delle quattro votazioni necessarie, soprattutto a causa delle singolari vicende di formazione del secondo governo Conte.

A partire da quella che sarà dunque la quarta applicazione nella storia repubblicana di questo istituto, si possono fare alcune osservazioni.

In primo luogo, tali referendum hanno finora rappresentato l’unico dato in controtendenza in un quadro di desolante aumento dell’astensione, che ha riguardato tutte le altre elezioni (politiche, regionali, amministrative, europee). La leggibilità di questo dato, tuttavia, è destinata in parte a svanire in questa occasione, poiché il decreto legge n. 26/2020, in ragione dell’emergenza Covid-19, ha previsto il cosiddetto election day anche ai fini dello svolgimento del referendum in parola, oltre che delle altre consultazioni elettorali previste per il 2020.

Questo produrrà un’affluenza alle urne verosimilmente diversa nei vari territori, in dipendenza della coincidenza, o meno, con altre consultazioni (soprattutto quelle regionali), e renderà più difficile la lettura già solo della partecipazione al voto per il referendum costituzionale (oltre che delle scelte degli elettori con riguardo al quesito proposto).

In secondo luogo, le tre occasioni precedenti erano frutto di volontà politiche più nitide e chiare di quanto non sia per quella attuale, anche se il fronte del “Sì” si è affannato, in queste settimane, a sostenere che si tratta di una riforma condivisa da decenni da tutte le forze politiche, nessuna esclusa, come dimostrerebbero le varie ipotesi di riforma costituzionale avanzate negli ultimi trent’anni.

Invero, le indecisioni dei partiti politici sono a tutti evidenti, come dimostrano la spasmodica attesa dei sondaggi da parte di alcune di esse, talora con richiami alla “libertà di coscienza”, il rinvio a questi giorni delle scelte ufficiali delle direzioni di altri (è di lunedì 7 settembre la decisione nel Pd: si legge, tra l’altro, nell’ordine del giorno approvato a maggioranza, che “La discussione al nostro interno è stata ed è articolata e in questo senso si comprendono alcuni rilievi di chi ha maturato una posizione contraria al taglio dei Parlamentari”, quasi che la differente visione del partito nelle prime tre votazioni fosse storia dimenticata), la profonda divisione trasversale nell’elettorato.

In terzo luogo, per la prima volta saremo chiamati a confermare, o meno, una riforma puntuale e non di insieme o organica (molte delle disposizioni di un intero titolo, come fu nel 2001, o di un’intera parte della Costituzione, nel 2006 e nel 2016). Ma anche qui è bene andare un po’ più a fondo.

E’ a tutti chiaro che si tratta di una riforma che gli stessi sostenitori del “Sì” definiscono puntuale, parziale, modesta, eppure anche come il solo elemento in grado di avviare un percorso di modifica più ampio e complesso (ed è significativo, nel merito, che vi sia bisogno fin da ora, per loro stessa ammissione, di immaginare dei “correttivi”, che i più avvertiti vanno adesso derubricando a “integrazioni”, forse consapevoli che non si presenta così bene avvalorare una cosa che ha bisogno di essere corretta per dare buona prova di sé). Bene osserva chi coglie l’idea di un disegno complessivo, fatto di taglio dei parlamentari, potenziamento della legislazione popolare ed eliminazione o revisione del libero mandato del parlamentare. Altri la considerano un’idea tramontata, ma gli sviluppi, anche di medio periodo, sono imprevedibili.

Il capitolo delle riforme costituzionali che da una trentina d’anni viene scritto nel nostro paese non brilla certo per momenti eccelsi e quella che si sta per scrivere sembra proprio un’altra brutta pagina di questa storia.

Revisioni in deroga alla Costituzione e ai meccanismi dalla stessa previsti. Procedure anomale. Modifiche organiche a (stretta) maggioranza. Artificiose differenziazioni tra prima e seconda parte della Costituzione. Uso strumentale e apertamente politico della procedura di revisione. Il documento costituzionale ridotto a merce di scambio tra le forze politiche. Un progressivo indebolimento della Carta condotto di pari passo con l’indebolimento delle garanzie del sistema e di alcuni dei suoi pilastri (ora è la volta del parlamentarismo e della rappresentanza, come in passato lo è stato delle istituzioni di garanzia e della forma di governo). Un vero e proprio accanimento, sul quale praticamente tutte le forze politiche, questo sì, si sono esercitate, con il malcelato desiderio di deviare il bersaglio dai centri realmente responsabili di inerzie e inefficienze.

Quale scenario ci attende, allora, dopo il 21 settembre, se, come ipotizzano i sondaggi, il “Sì” dovesse prevalere?

Forse è troppo sperare che le forze che si intesteranno il merito della vittoria si accontentino di farla valere sul piano politico. Da più parti, infatti, si sente apertamente rilanciare, sulla spinta di un processo riformatore finalmente ripartito.

Così come forse è troppo sperare che altrettanta dedizione verrà riposta nello sforzo di innovazione, ma soprattutto di impegno e responsabilità nel quotidiano che la situazione di per sé imporrebbe e che le risorse che verranno dall’Europa richiederebbero.