Tre dei cinque referendum sulla giustizia del 12 giugno riguardano l’ordinamento giudiziario, cioè questioni che attengono l’organizzazione del sistema giudiziario. I quesiti sembrano complessi, come spesso accade per i referendum abrogativi che sono caratterizzati dalla cancellazione di testi normativi o addirittura di parti di norme (“volete voi che sia abrogata la legge numero tal dei tali, limitatamente alle parole…” ecc.), ma se si ha la pazienza di leggere i titoli dei quesiti già si inizia a capire di cosa si stia parlando.



Il titolo della scheda n. 3 (di colore giallo) recita così: “Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme … che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati”.

Il processo penale in Italia è strutturato così: da una parte c’è il pubblico ministero che svolge le indagini, individua i potenziali autori dei reati e cerca di farli condannare. Dall’altra parte c’è l’avvocato che difende l’imputato e cerca di farlo assolvere o almeno di fargli ottenere una pena equa. In mezzo tra i due contendenti c’è il giudice che, terzo rispetto alle parti, decide se dare ragione all’uno o all’altro, se condannare o assolvere.



Succede che il pubblico ministero, l’accusa, e il giudice hanno superato il medesimo concorso, frequentano gli stessi corsi di aggiornamento, fanno parte delle stesse associazioni sindacali (correnti). E ancora le decisioni sulla loro progressione in carriera e la funzione disciplinare sono affidate allo stesso organismo (il Csm). Quando parlano fra di loro si danno del tu: insomma sono colleghi.

La legge sull’ordinamento giudiziario inoltre consente loro di passare dal ruolo di accusatore a quello di giudice terzo (e viceversa) per ben quattro volte in carriera, seppur con l’obbligo di cambiare sede giudiziaria (in gergo questa operazione si chiama tramutamento delle funzioni).



Per chi consiglia di votare no (in particolare l’Anm, il sindacato dei magistrati), il cambiare funzioni non costituisce un problema, anzi consente al magistrato che da giudice passa a fare il Pm di assimilare una opportuna “cultura della giurisdizione” che lo agevolerà nel suo lavoro.

Ma il vero problema è il caso opposto, il passaggio da Pm a giudice: dopo avere lavorato per anni come accusatore quale antagonista di imputati e difensori ed aver inevitabilmente assimilato la forma mentis dell’inquirente, un magistrato può scegliere di sedere sullo scranno del giudice terzo, imparziale, che deve decidere se dare ragione al Pm (suo ex collega) o al difensore (sua ex controparte).

C’è un’evidente disarmonia che altera il regolare esercizio della giurisdizione e che il voto referendario vuole risolvere (anche se secondo molti sarebbe necessario introdurre una più radicale separazione delle carriere, operazione  che richiede però una modifica della Costituzione).

Che questa sia la strada giusta lo testimonia il fatto che anche la riforma Cartabia in discussione al Senato affronta la questione modificando la norma nel senso che un magistrato potrebbe cambiare funzione in carriera una sola volta.

Ma se il 12 giugno vincerà il sì un magistrato farà tutta la vita il giudice o tutta la vita il pubblico ministero. Come l’avvocato fa tutta la vita l’avvocato. E il processo sarà più equo.

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