Continua il dibattito sul taglio dei parlamentari, oggetto di referendum costituzionale il 21 settembre. Anche in partiti che hanno votato la legge in parlamento si registrano posizioni contrastanti, mentre FdI è l’unico partito del centrodestra schierato convintamente a favore del Sì. Ugo de Siervo, presidente emerito della Consulta, è favorevole al taglio dei parlamentari.



La riforma – dice De Siervo al Sussidiario – “è significativa, ma non stravolge. Le grosse riforme, di Renzi e Berlusconi, sono state bocciate perché erano incoerenti al loro interno. Probabilmente non siamo ancora pronti per una grossa riforma costituzionale”. De Siervo voterà Sì perché crede che meno parlamentari sveltiranno le procedure e perché un loro minor numero diminuirà gli interessi particolari rappresentati in Parlamento, ma non crede che il taglio dei parlamentari possa migliorare, di per sé, i lavori del Parlamento; vanno modificati i Regolamenti. Quanto al sistema di voto, “una riforma costituzionale non va mischiata con la legge elettorale, su cui i partiti hanno un controllo ferreo. E da sola non può migliorare i problemi delle Commissioni, che vengono dal ceto politico”.



Secondo alcuni il taglio dei parlamentari è più inutile che dannoso.

Di certo è un intervento significativo che tocca il nostro sistema costituzionale.

Abbinato a una nuova legge elettorale può portare a un cambiamento istituzionale tale da portarci in una sorta di “terza repubblica”?

No. Per anni abbiamo avuto leggi proporzionali che non hanno prodotto effetti così diversi dai successivi sistemi elettorali caratterizzati da premi di maggioranza e dal predominio del capo di coalizione o del capopartito. I miglioramenti che dovevano provenire dalle correzioni maggioritarie non ci sono stati, e probabilmente ora torneremo a un sistema più proporzionale.



Il dibattito sul referendum può includere quello sulla legge elettorale?

No, perché una sola di queste due materie è già abbastanza complicata. Le leggi elettorali sono importantissime, ma controllate in modo ferreo, a volte più delle norme costituzionali, dal sistema politico. La stessa cosa vale per le soglie di sbarramento, scelte dai partiti per evitare la frantumazione della rappresentanza politica.

Perché, secondo lei, abbiamo bisogno di questa modifica costituzionale?

Abbassare il numero dei parlamentari vuol dire ridurre gli interessi microscopici o di lobby che trovano facilmente rappresentanza nell’ampio Parlamento attuale. E poi è provato che le grandi assemblee elettive hanno seri problema di funzionalità.

Il taglio può velocizzare il procedimento legislativo?

Una camera più snella potrebbe, in astratto, lavorare in modo forse più lineare. Negli Usa, ma non solo, i membri delle Camere sono decisamente meno dei nostri, senza che questo causi problemi particolari. Ma il funzionamento delle Camere dipende da molti fattori, dalle norme parlamentari, dalle prassi, dalla volontà dei gruppi parlamentari. E la Costituzione non può darci l’assicurazione che i gruppi parlamentari funzionino bene.

Come si può fare in modo che le Commissioni continuino a funzionare?

Basta cambiare le norme regolamentari, decise dall’autogoverno di Camera e Senato: ogni 10-15 anni assistiamo a una loro grande riforma, a cui si sommano una miriade di modifiche minori che avvengono molto spesso.

Molti rilevano che i parlamentari in Commissione seguono pedissequamente la linea del partito. Si devono cambiare i Regolamenti per evitarlo?

Quest’ultimo punto riguarda l’autonomia del parlamentare dal proprio gruppo, e non può essere cambiato dal taglio del numero dei parlamentari. È un problema del ceto politico, che deve riacquistare la piena autonomia di valutazione. Questo però deve succedere nel contesto della propria autonomia relativa: un parlamentare rappresenta pur sempre la piattaforma politica nella quale è eletto.

Non è la prima volta che si cambia il numero dei parlamentari.

Il numero dei componenti di Camera e Senato è mutato più volte dal ’48. La Costituente prevedeva un deputato ogni 80mila cittadini: bisognava costruire una rete di rappresentanti politici dopo il fascismo, ma anche dopo un periodo liberale che sui territori rappresentava soltanto ceti ristretti. Allora andava diffusa la democrazia a livello nazionale, oggi con quel metodo avremmo 750 deputati. E poi col passare degli anni le assemblee rappresentative sono aumentate.

Però, al tempo stesso, la rappresentanza sembra in crisi.

Ci sono 70-80 rappresentanti italiani al Parlamento europeo, e i consigli regionali esprimono giunte importanti. Nel nostro sistema costituzionale la rappresentanza politica è diffusa.

Vuole dire che la centralità del Parlamento non c’è già più?

Forse è un po’ meno centrale: se le leggi fondamentali le fa l’Unione Europea anche col voto di rappresentanti italiani, il potere legislativo del parlamento nazionale si riduce. E se le regioni hanno la legittimità di fare alcune scelte legislative, su queste il Parlamento non dovrebbe esprimersi. Anche se Camera e Senato restano centrali nel sistema nazionale, non siamo più di fronte al Parlamento dell’Italia prefascista, che poteva fare tutto e il contrario di tutto.

Qualcuno dice che si è fatta una modifica senza un fine politico, come poteva essere l’introduzione del monocameralismo o l’approvazione di una Costituzione presidenzialista.

Ragionando in questo modo si cade nella tentazione pericolosa di rifare ogni volta la Costituzione. Le grandi riforme costituzionali in Italia non passano, lo insegna il fatto che due grosse riforme come quella di Berlusconi del 2006 e quella di Renzi del 2016 sono state bocciate: contenevano troppe cose, e seguivano modelli non coerenti al loro interno. Invece su singoli punti la Costituzione è stata modificata decine di volte.

E senza che ci fosse M5s.

Di abbassare il numero sui parlamentari si parla da quarant’anni, e comunque non l’hanno fatto i 5 Stelle da soli. Detto ciò, le motivazioni discutibili dei 5 Stelle o dei leghisti, che finora hanno spinto questa riforma, vanno messe da parte. Bisogna prendere la parte oggettiva, che è una significativa diminuzione dei deputati e dei senatori e che può essere la base di riforme ulteriori.

Lei è d’accordo con chi dice che il fatto che i deputati perdano parte della loro rappresentatività territoriale non è un problema, perché comunque devono andare in Parlamento a rappresentare la nazione?

È scritto in Costituzione: non si rappresentano interessi frazionari. Lo stesso divieto di mandato imperativo vuol dire questo: il parlamentare rappresenta la nazione, dal suo singolo punto di vista.

Ma poi, scusi, i territori non sono molto più rappresentati oggi rispetto a prima della riforma del titolo V della Costituzione?

Appunto. Ci sono i consigli regionali, le assemblee elettive locali, le città metropolitane. C’è di tutto e di più: lasciamo al Parlamento la funzione di rappresentare il grande dibattito nazionale.

(Lucio Valentini)