Tra meno di un mese (20 e 21 settembre) l’agenda politica prevede lo svolgimento del cosiddetto election day per le elezioni regionali, amministrative ed il referendum confermativo sulla proposta di legge costituzionale (A.C. 1585-B) approvata in via definitiva dalle Camere, che prevede la riduzione del numero dei parlamentari modificando gli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione.
Di che cosa si tratta?
Qualora la riforma venisse confermata dall’esito favorevole del referendum, i componenti della Camera dei deputati passeranno dagli attuali 630 membri a 400 mentre al Senato della Repubblica dagli attuali 315 membri a 200. La modifica costituzionale prevede, fermo restando che chi è stato Presidente della Repubblica diventa di diritto, salvo rinuncia, senatore a vita, anche la revisione dell’art. 59 comma 2 Cost., disponendo che il numero di coloro che possono essere nominati “per altissimi meriti” senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica viene fissato in un numero massimo di cinque. Ai fini della validità del referendum confermativo non è previsto il raggiungimento di alcun quorum, ovvero la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto e pertanto ai fini del perfezionamento dell’iter legislativo di modifica costituzionale è sufficiente che il quesito referendario sia approvato dalla maggioranza dei voti validamente espressi.
L’applicazione delle nuove disposizioni recanti la modifica costituzionale avverrà “a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore (…) e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore”. Per ciascuno dei due rami del Parlamento, si determinerà una riduzione del 36,5% degli attuali componenti elettivi. La modifica inciderà significativamente sul rapporto a livello territoriale tra numero medio di abitanti e parlamentare eletto: per la Camera si passerà da un deputato eletto ogni 96.006 abitanti a uno ogni 151.210 abitanti, mentre per il Senato si passerà da un senatore eletto ogni 188.424 abitanti ad uno ogni 302.420 abitanti. La modifica costituzionale stabilisce il minimo di tre senatori per ogni Regione o Provincia autonoma, ferma restando la previsione vigente circa il numero di eletti del Molise (due senatori) e della Valle d’Aosta (un senatore).
Ragioni a confronto
Tra le argomentazioni principali a favore della riforma costituzionale si ricorda l’assunto per il quale i parlamentari in Italia sarebbero troppi, mentre altre argomentazioni fanno leva sul fascino suggestivo per il taglio dei costi della politica e per una presunta maggiore efficienza ed efficacia del Parlamento allineando cosi le nostre istituzioni parlamentari all’Europa. Ma è davvero così?
Con riferimento alla prima delle argomentazioni giova ricordare che occorre adottare un criterio per giudicare il numero dei parlamentari, valutando l’adeguatezza del rapporto tra eletti e abitanti, piuttosto che fermarsi ai dati espressi in valore assoluto, perché il profilo quantitativo della rappresentanza parlamentare è sempre suscettibile di una valutazione circa il rapporto esponenziale che essa stabilisce con il territorio e la popolazione di riferimento.
Da questo punto di vista, il rapporto tra eletti ed abitanti nel nostro Paese risulta essere del tutto conforme ad un criterio di adeguatezza ponendosi in linea con quanto avviene a livello europeo. Operando, infatti, un confronto tra i 27 Paesi dell’Unione Europea e considerando i componenti della cosiddetta “camera bassa” (non potendo raffrontare i dati relativi al Senato in quanto troppo eterogenei da paese a paese, dal punto di vista del profilo della formazione e del funzionamento della cosiddetta “camera alta”) laddove esiste è possibile constatare attualmente che il rapporto eletti-abitanti in Italia, che si colloca al ventitreesimo posto su ventisette, è pari a 1,6 deputato per 100mila abitanti, collocando il nostro Paese a fianco dei maggiori Paesi (il rapporto eletti-abitanti è più ridotto solo per la Francia, ventiquattresima con 1,4, l’Olanda con 1,3 e la Germania, con meno di un parlamentare ovvero 0,9 ogni 100mila abitanti).
Il rapporto tra eletti e abitanti in Italia risulta, tuttavia, inferiore alla maggioranza dei Paesi dell’Ue che hanno un numero di parlamentari superiore. La graduatoria del numero di parlamentari assegna il primato a Malta (con 14,5 parlamentari ogni 100mila abitanti), seguita da Lussemburgo (11,2) ed Estonia (7,6). Se il referendum sortisse un esito positivo, il rapporto eletti-abitanti in Italia scenderebbe ad un valore pari a 0,7 confinando l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi dell’Ue dietro soltanto alla Spagna che ha un rapporto eletti-abitanti pari a 0,8.
Per quanto concerne l’argomentazione che fa leva, sfruttando il clima consolidato di antipolitica e di populismo ormai dilaganti, sul taglio dei costi della politica occorre rammentare che il risparmio effettivo conseguente al taglio del numero dei parlamentari sarà di circa 285 milioni di euro a legislatura o 57 mln annui e pari soltanto allo 0,007% della spesa pubblica italiana, ultimamente cresciuta oltremodo con l’incremento dell’indebitamento dello Stato anche a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Il risparmio annuo si tradurrà in un valore per famiglia pari a 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino. Cifre davvero insignificanti rispetto al costo complessivo pari a 975 mln per Camera dei deputati e pari a 550 per il Senato della Repubblica.
La riforma costituzionale che interviene soltanto sulla mera riduzione del numero dei parlamentari, senza alcuna revisione dei processi e delle strutture amministrative a supporto dei medesimi, potrebbe anche generare un aumento dei costi a supporto del singolo parlamentare, legati alla più ampia territorialità di cui sarà esponente ed alla più alta mole di lavoro complessivo, con meno eletti in ciascuna Camera. La democrazia rappresentativa parlamentare di un ordinamento repubblicano come l’Italia ha i suoi costi legittimi ed una razionalizzazione dei costi della politica, a tutti i livelli, è possibile soltanto in una logica di sostenibilità ed in relazione all’efficacia e all’efficienza effettive delle attività svolte. Anche in questo caso occorre adottare un criterio per giudicare l’entità dei costi della politica secondo principi di adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità rispetto alla funzione legislativa attribuita agli organi parlamentari indefettibile a livello costituzionale.
Per quanto riguarda l’ultima argomentazione offerta a sostegno delle ragioni di un voto favorevole al referendum, ovvero l’efficientamento dei lavori parlamentari, occorre rilevare che il mero taglio dei parlamentari disposto da questa “riforma” costituzionale non produrrà in realtà alcun beneficio sotto il profilo qualitativo dei lavori svolti dal Parlamento e nemmeno apporterà miglioramenti al processo legislativo sempre più ostaggio di un altro problema che rischia di marginalizzarne il ruolo, ormai purtroppo consolidato nella prassi parlamentare, ovvero l’abuso del governo nel reiterato ricorso alla decretazione d’urgenza.
L’approvazione della riforma costituzionale era stata, infatti, accompagnata dalla promessa – rimasta purtroppo lettera morta – di introdurre alcune specifiche misure di contemperamento istituzionale quali, in primis, una nuova leggere elettorale proporzionale con dei correttivi in grado di tutelare sia la rappresentatività così incisa dall’intervento di diminuzione dei parlamentari, sia la governabilità per garantire la stabilità politica, così agognata nel nostro Paese. In secondo luogo la riforma costituzionale avrebbe necessitato di essere coordinata con un intervento di revisione delle funzioni del Parlamento nell’ottica del tanto auspicato superamento del bicameralismo perfetto.
C’è chi dice No
Il taglio dei parlamentari, qualora dovesse ricevere un responso favorevole dal referendum confermativo di settembre, in ultima analisi rischierebbe quindi di rafforzare il populismo come approccio metodologico alla questione politica, indebolendo così ulteriormente la democrazia rappresentativa sotto il profilo sostanziale e il Parlamento quale sede elettiva di composizione e di rappresentanza di una pluralità di istanze ed interessi.
In conclusione, il mero taglio dei parlamentari sul quale saremo chiamati a esprimerci non apporta alcun beneficio sostanziale in termini di risparmio dei costi della politica, né di miglioramento del processo legislativo né di efficienza ed efficacia dell’attività parlamentare. Indebolisce, invece, il Parlamento, dando ulteriore fiato all’antipolitica con più decisioni prese dall’alto e meno decisioni prese dal popolo. La politica, tuttavia, è una cosa seria e non vi è alternativa ad essa in una democrazia parlamentare. In questo contesto di crisi del rapporto tra politica e cittadini, tra partiti e comunità civile, e più in generale della rappresentanza politica, non si può non ripartire dall’ascolto delle istanze che provengono dalla società, valorizzando il protagonismo dei corpi intermedi e della società civile, per una compiuta democrazia sociale.
Per queste ragioni, appare oggi più che mai attuale un interrogativo espresso dall’on. Aldo Moro intervenuto al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana tenutosi il 18 gennaio 1969 a Roma: “Parliamo, giustamente preoccupati, di distacco tra società civile e società politica e riscontriamo una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità, una meno spiccata attitudine a risolvere, su basi di comprensione, di consenso e di fiducia, i problemi della vita nazionale. Ma, a fondamento di questa insufficiente presenza dei partiti, non c’è forse la incapacità di utilizzare anche per noi, classe politica, la coscienza critica e la forza di volontà della base democratica?”.
Ecco, dunque, l’occasione nascosta in questo referendum: recuperare tutti questa coscienza critica, rilanciando così una piena democrazia sociale e politica. Non certo togliere qualche parlamentare.