Reflection (Riflesso), quinto lungometraggio del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, era in concorso all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia e molti che lo videro si stupirono per il fatto che non ricevesse alcun premio e che il film, sostanzialmente, passasse sotto silenzio anche perché, a differenza di altri, piuttosto convenzionali, questo film è sicuramente un’opera d’arte cinematografica il cui argomento, oltretutto, era ed è di grande attualità. Colpisce, quindi, che solo ora, dopo l’invasione dell’Ucraina, tutti, critici e spettatori, vogliano parlarne vederlo e che il film sia stato proiettato gratuitamente, prima dell’uscita commerciale, per solidarietà con l’Ucraina in molte città d’Italia.



Il regista Valentyn Vasyanovych aveva vinto nel 2019 la sezione Orizzonti della Mostra di Venezia con il film Atlantis ambientato addirittura nel futuro, nel 2025, in un immaginario dopoguerra del Donbass, in cui un reduce non trovava più il posto di lavoro, perché distrutto, e si dedicava a seppellire i morti, aggirandosi in un’Ucraina dove le falde acquifere sono inquinate dai residui radioattivi, ma recuperando la propria umanità attraverso l’amore per una donna. Il film era stato molto apprezzato e questo ha giustificato pienamente l’inserimento della nuova opera del regista nel concorso principale.



La trama di Reflection è molto semplice e lineare. Serhiy è un chirurgo ucraino che a Kiev opera quotidianamente i soldati feriti che arrivano dal fronte del Donbass. Si rende conto che molti soldati muoiono e il suo lavoro è spesso inutile perché passa troppo tempo dal momento in cui vengono feriti a quello in cui vengono operati. Decide, quindi, di rinunciare alla tranquilla vita borghese di Kiev e di partire come volontario per il fronte. Forse vuole anche emulare Andrii, il nuovo compagno dell’ex-moglie, di cui è amico e al quale è molto affezionata la figlia di dieci anni di Serhiy, Polina. Al fronte sbaglia strada e viene fatto prigioniero dai russi, torturato e umiliato. Come medico viene però utilizzato non per curare i prigionieri ma per verificare se i soldati ucraini torturati sono vivi e possono ancora parlare. Viene anche costretto ad aiutare a bruciare in un inceneritore mobile i cadaveri dei soldati. Tra questi, purtroppo, c’è anche Andrii. 



Grazie a uno scambio di prigionieri, ma solo dopo aver confessato di aver invaso illegalmente il Donbass, può rientrare a Kiev. Tornato alla sua vita borghese e sicura, lontano dagli orrori della guerra, cerca di nascondere la morte di Andrii all’ex-moglie, fino a quando non riuscirà a farle recuperare il corpo, che lui ha ottenuto che non venisse incenerito. Serhiy si deve anche dedicare a ricostruire una relazione con la figlia che sta affrontando la scoperta della crudeltà e dell’orrore del mondo.

La trama, però, è solo un pretesto per parlare di noi, del mondo contemporaneo che mette l’essere umano di fronte al contrasto tra la bellezza e l’orrore. Parla delle relazioni tra padri e figli, tra adulti e bambini, tra adulti che scoprono di essere impotenti di fronte all’orrore e vorrebbero preservare i bambini dallo scoprirlo e allo stesso tempo sentono la necessità di accompagnarli, comunque, in questa scoperta e aiutarli ad affrontarla.

Il tema del riflesso, cui allude il titolo, è rappresentato in tutto il film: la bellezza della vita a Kiev si contrappone simmetricamente nel riflesso deformato dell’orrore della guerra. Serhiy dorme in cella nella stessa posizione in cui dorme sul divano di casa, sotto una grandissima finestra al di là della quale si vede il panorama notturno e bellissimo di Kiev. Le armi e i droni che uccidono nel Donbass sono giocattoli a Kiev. E così via.

Reflection è un film che andrebbe visto più volte, perché è difficile con una sola visione apprezzarne la bellezza e la ricchezza. Valentyn Vasyanovych non è solo un regista, ma anche uno straordinario direttore della fotografia che realizza il suo film attraverso soli 25 intensi quadri, con la camera fissa o con piani sequenza o con entrambi. Ogni elemento della messa in scena, luci, ombre, colori, posizionamento dei personaggi e degli oggetti, profondità di campo, movimenti nell’inquadratura, è scelto accuratamente dal regista ed è un piacere per gli occhi e per la mente percorrere con lo sguardo quei quadri per scoprirne la struggente bellezza e varietà.

In merito alla violenza presente nel film si può dire che, rivedendolo alcuni mesi dopo Venezia, ci si rende conto che è di gran lunga inferiore come quantità a quella di cui ci si ricordava. Le scene di tortura durano in realtà pochi secondi, ma la costruzione della scena, la rappresentazione della disumanità, della brutalità, dell’indifferenza, della crudeltà dei torturatori, in un piano sequenza estremamente coinvolgente, ne dilata gli effetti sullo spettatore, che è imprigionato anche lui dentro il quadro. Di fatto la maggior parte del film si svolge a Kiev e solo 6 scene in guerra.

La genesi del film è raccontata dallo stesso regista e merita di essere riportata con le sue parole: “Ho iniziato a lavorare a questa storia ispirato da un piccione che si è schiantato contro la nostra finestra, mentre volava ad alta velocità, lasciando un segno allo stesso tempo bello e orrendo. Mia figlia di dieci anni ha visto tutto: l’impronta precisa delle ali, la traccia di sangue lasciata dall’impatto della testa, le piume attaccate al vetro. Nei giorni successivi, eravamo turbati da quanto era successo. Le sue preoccupazioni, domande, attese di risurrezione miracolosa, la negazione dell’irreversibilità di questo evento e i tentativi di comprendere la morte dal punto di vista infantile mi hanno spinto a scrivere una storia“.

Quella che il regista racconta è appunto la scena centrale del film, quando Polina è di fronte alla grande finestra della casa del padre a contemplare, questa volta di giorno, il panorama di Kiev e un piccione si spiaccica, letteralmente sul vetro. La macchia, difficile da togliere, rimarrà per giorni ed evocherà sempre il tema del riflesso e della morte.

L’episodio del piccione si ricollega a quanto detto durante le scene nel Donbass dal russo addetto all’inceneritore. All’inceneritore stesso sono dedicate due scene, entrambe difficili da dimenticare. La prima – e può sembrare incredibile dato l’oggetto – è di una perfezione estetica straordinaria. La porta mobile di un capannine, che sembra un’opera di arte contemporanea, scorre lentamente fino a scoprire il retro di un camion sul quale c’è scritto “Aiuti umanitari dalla Federazione russa“. Il camion arretra verso la macchina da presa riempendo il quadro e il portellone, guidato da un operatore russo, si apre e rivela al suo interno non aiuti umanitari, ma un pauroso e però affascinante forno crematorio. Nella seconda scena l’operatore russo trova nelle ceneri che raccoglie un pezzo di metallo rimasto indenne. Il chirurgo, che dovrebbe aiutarlo a bruciare il corpo di Andrii, gli spiega che è una protesi dell’anca al titanio e che potrebbe valere 2.000 euro. L’operatore gli confida che con 2.000 euro si comprerebbe un’auto europea usata e farebbe il tassista, vivendo libero come un uccello. Serhiy gli offre dei soldi perché seppellisca il cadavere di Andrii e dia alla famiglia le coordinate per recuperarlo. Il russo avrà i soldi per realizzare il suo sogno, ma non sarà libero, perché, come ci mostra il regista nella scena del piccione, anche gli uccelli, apparentemente liberi, muoiono sbattendo contro un vetro ingannati da un riflesso, così come il taxi potrebbe sbagliare strada, come ha fatto il chirurgo, o sarà scambiato per un nemico e magari distrutto.

Reflection è, infine, anche un film sul cinema che è un riflesso della realtà non è la realtà. Il regista ce lo ricorda più volte fin dalla scena iniziale, prima dei titoli di testa, in cui compaiono tutti i personaggi, Serhiy, Andrii, l’ex-moglie, Polina e scopriamo che la palestra sullo sfondo e l’ambiente in cui stanno i personaggi sono separati da una parete trasparente quando su di essa si spiaccicano, come poi il piccione, le palline di vernice colorata con cui alcuni ragazzi, tra cui Polina, giocano alla guerra. A Kiev un vetro protegge gli spettatori dalla guerra, anche se solo simulata. In un’altra scena, il vetro dell’auto separa il padre e la figlia dal film che viene proiettato fuori. Gli spettatori, quelli sullo schermo e noi in sala, sono sempre protetti, poi però nel Donbass, in guerra, non c’è più un vetro a proteggere il chirurgo e la tecnica del regista impedisce quasi anche a noi spettatori, al di qua dello schermo, di sentirci al sicuro, di sentirci, in fondo, comodamente estranei a quello che vediamo. Ma nell’ultima meravigliosa scena Serhiy, l’ex moglie e Polina partecipano ad un gioco in cui bisogna riconoscere i propri cari dal rumore dei passi, senza vederli. Non c’è bisogno di vedere, ci dice il regista, per riconoscere coloro a cui vogliamo bene.

E fa impressione pensare che, invece, adesso attraverso quella finestra su Kiev della casa di Serhiy il cielo notturno è squarciato dai bagliori degli incendi, dalle traiettorie dei missili, dai fari della contraerea e dagli urli delle sirene. E non c’è più riflesso, simmetria, ormai l’orrore in Ucraina è dappertutto.

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