Per capire l’evoluzione di una crisi governativa spesso serve un’equilibrata mescolanza di assennatezza e sfera di cristallo. Non sempre vincono le soluzioni più avvedute e tuttavia e per fortuna non sempre prevalgono quelle più avventate, sorprendenti e scombinate. Molti costituzionalisti hanno opportunamente osservato come le crisi rappresentino un’ulteriore esautorazione del Parlamento: sempre meno demandate alla prova dei numeri nelle Camere, spesso nascono proprio precedendo qualunque verifica tecnica parlamentare.
In realtà, sul piano esteriore, è senz’altro vero: un Parlamento indebolito nella qualità dei suoi rappresentanti, nelle sue attribuzioni formali e sostanziali, nel suo recepimento da parte dell’opinione pubblica, si riduce troppo spesso se va bene a fare il ratificatore di equilibri stabiliti altrove.
D’altra parte, proprio la de-parlamentarizzazione delle crisi dimostra ancora una volta la tipicità costituzionale del rapporto fiduciario tra compagine dell’esecutivo e maggioranza parlamentare. Senza numeri non si cantano messe e quel Parlamento sempre più deprezzato, quasi espulso dallo stato d’emergenza nel pieno della sua tipica funzione legislativa, inevitabilmente accampa la propria riottosa visibilità.
C’è un solo gruppo, dalla fine della Prima Repubblica a oggi, che aumenta esponenzialmente le proprie fila dal giorno successivo al voto a quello immediatamente precedente alle elezioni seguenti: il gruppo misto. Sempre più spesso, gruppi talora apertamente irrisori (di due o tre senatori, di otto o dieci deputati) si smarcano dai partiti in cui i loro componenti erano stati eletti e si coagulano intorno a denominazioni estemporanee, generiche, interessate, prive di ogni rispecchiamento sociale nel Paese, pur pretendendo di essere i veri pragmatici della salute pubblica.
In un sistema sano, tre cose dovrebbero essere chiare e che non lo siano in Italia vale a testimoniare che le nostre istituzioni non versano nella loro fase di migliore salute: la maggioranza, che sia esigua o cospicua, ha diritto ad agire deliberando in quanto maggioranza; essere maggioranza non significa strumentale strozzatura delle minoranze, esattamente come non dovrebbe essere dato alle minoranze di agire solo in senso di ostruzionismo; non è vera maggioranza nella pratica e nell’indirizzo politico se è sorretta da un pallottoliere senza coesione, allargato col bilancino quanto basta per galleggiare.
Il vero punctum dolens di ogni crisi, insomma, non risiede nella debolezza dell’azione governativa o nello sfiancante andirivieni di basse contrattazioni parlamentari, ma, a un livello ancor più basico ed elementare, nella mancanza di numeri per immaginare maggioranze alternative. Ciò testimonia d’altra parte anche un aspetto spesso dimenticato: la cultura politica italiana, con la sua caratteristica volatilità, non saprebbe mai vivere in modo sano e responsabile una divaricazione di maggioranze tra le camere (non occasionale negli Stati Uniti), un ciclo di elezioni troppo ravvicinato (realizzatosi persino in Spagna e in Grecia, senza eccessivi drammi eppur nel pieno delle loro peggiori crisi economiche), un governo senza mandato forte e maggioranza robusta (cosa del quale ha a lungo fatto a meno il Belgio, mantenendo però sull’ordinaria amministrazione degli standard eccellenti), un Presidente di orientamento chiaramente opposto a quello del voto assembleare (cosa per ragioni costituzionali frequentemente accaduta e accettata nel presidenzialismo francese).
La vera croce delle crisi è perciò e ancora una volta la natura ballerina dei loro numeri, negli scenari precedenti e in quelli successivi al voto. Nel 2013 Bersani, leader del partito e della coalizione che avevano ottenuto una maggioranza chiara alla Camera e solo relativa al Senato, si inventò un faticoso e irrituale tour di consultazioni tra parti sociali che era espressivo purtroppo della ostinata sordità delle sue controparti parlamentari. Il Governo Letta, seguito nello spazio di poche settimane, è costretto a rimodularsi come governo di coalizione allargato al centrodestra perché, molto banalmente, i 5 Stelle avevano sbattuto la porta in faccia a ogni ipotesi di accordo mentre oggi, invece, ci dimostrano ampiamente che sanno accordarsi con chiunque. A ben vedere, il governo giallo-verde (il primo governo Conte) nasce da esigenze numeriche perfettamente sovrapponibili. Il centrodestra Meloni-Salvini-Berlusconi vince le elezioni, ma non ha numeri per farcela da sé; l’altro “vincente-perdente”, vincente nell’immagine ma non completamente vittorioso nei risultati, è il Movimento 5 Stelle. Un patto tra la Lega e i grillini come alternativa a una coalizione centrodestra/centrosinistra, resa impraticabile dalla débâcle di Forza Italia e Partito democratico, nasce da lì.
E pure il governo giallo-rosso, forse giallo perché enigmatico e rosso perché legato anche a causa della pandemia a una devastante contrazione del Prodotto interno lordo, con quell’innaturale sostituzione di immaginario e di alleanze dalla Lega al Pd di Zingaretti (quanto di più simile alla cultura dell’ex Pci-Pds-Ds, in grado di ricucire con tutti i gruppuscoli della sinistra interna), nasce dall’esigenza di portare la somma oltre l’asticella della maggioranza.
Il presidente Mattarella ha affidato al presidente della Camera un “mandato esplorativo”; come fu fatto con Bersani, che non presiedeva all’epoca non solo alcuna Camera, ma forse nemmeno la sua stessa coalizione. Intendiamoci: sul piano istituzionale, politologico, pubblicistico, anche un mandato “esplorativo” potrebbe e dovrebbe avere una funzione se non alta certamente utile. Sondare l’evoluzione nei posizionamenti dei gruppi parlamentari, verificare nuove geometrie nella maggioranza (se esiste), stimolare un dibattito tra partiti e parti sociali. Spesso, però, è il contratto preliminare a una bolla di sapone. Capitò a Franco Marini, all’epoca presidente del Senato: a parole elogiato da tutti, non riuscì a trovare la quadra e per lui non si votò nemmeno come presidente della Repubblica.
La verità è che questa politica ha superato i partiti e la loro presenza nella società, per smembrarli nei gruppi parlamentari (più tirannici e ricattatori che mai; più sono piccoli più contano e vogliono contare) e nei comitati elettorali (quelli che si riuniscono con spin doctor e web engineer prima del voto). Con la barriera protettiva della Costituzione, però, molte alternative a una maggioranza alle Camere non ce ne sono. Il voto, certo. E quell’antico dilemma se da esso verrebbe un puzzle ancor più povero di linee forti o una maggioranza, sì, ma molto più assertiva di quella che l’altro ieri si trascinava alle Camere senza accorgersi di esser divenuta poco più che una grande minoranza.