ELEZIONI REGIONALI E REFERENDUM. È talmente complicata la situazione italiana che, nell’azzardare un pronostico sulle elezioni di domenica e lunedì, sembra di andare a sbattere contro un enigma pericoloso.

Riassumiamo brevemente: si vota in sette regioni, al momento governate due dal centrodestra e quattro dal centrosinistra, mentre la Valle d’Aosta sembra sempre una storia a parte per i suoi movimenti autonomistici. Si vota inoltre per un referendum confermativo che pare sia stato “scoperto” da qualche settimana, ma che addirittura dovrebbe stabilire il taglio lineare di parlamentari alla Camera e al Senato, una sorta di riforma della rappresentanza territoriale senza alcuna rivisitazione costituzionale.



Infine, anche se sembra che spesso si dimentichi, si vota in oltre mille comuni italiani, anche in qualche capoluogo di provincia e in cittadine di media grandezza. Insomma il test elettorale sarà ampio e inevitabilmente significativo.

Impossibile non tenerlo in considerazione dopo il dramma della pandemia, il tonfo dell’economia, con tutti i problemi connessi al debito, alla disoccupazione, alla chiusura di molte attività produttive, ai rapporti con l’Europa e al programma di aiuti che dovrebbero arrivare per rilanciare e addirittura modificare la struttura dell’economia italiana. Il tutto accompagnato dalla necessità di riforme importanti e, secondo molti, non più rinviabili, che riguardano l’amministrazione pubblica, la giustizia, piani di investimenti pubblici a supporto o in sinergia con investimenti privati, la scelta di una economia sostenibile e green, come ha suggerito, nel suo discorso di mercoledì, Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea.



Perché quindi non è possibile ignorare, in tutti i suoi significati, il test elettorale? Che peso possono avere i risultati sull’attuale governo? La situazione politica italiana è molto, forse troppo, intricata: c’è da un anno in Parlamento una maggioranza anomala tra Partito democratico (formazione nata principalmente da post-comunisti e post-democristiani di sinistra) e il Movimento 5 Stelle, la “creatura” inventata dal comico Beppe Grillo su alcuni suggerimenti anti-casta (cioè anti-politica) fatta da ambienti finanziari-industriali che gestiscono clan giornalistici, e con una certa “benevolenza” del cosiddetto “schema Palamara”, l’incredibile magistratura italiana delle procure onnivore di indagini e sempre attente a guadagnare uno spazio politico.



Il primo problema è che questo governo, presieduto da Giuseppe Conte e diviso al suo interno per posizioni divergenti tra Pd e M5s su diversi punti, non è riuscito a trovare un accordo neppure sulle alleanze regionali e ha una maggioranza che, nata dalla crisi del governo Conte 1 successiva alle ultime elezioni europee, è stata smentita da successive elezioni amministrative. In più è costantemente sottostimata dai sondaggi.

Giuseppe Conte guida un autentico secondo ircocervo: adesso sinistra più anti-politica pentastellata, prima aveva guidato il primo ircocervo: destra (Lega) e sempre insieme all’anti-politica pentastellata. Il premier sembra quasi un “fenomeno paranormale” da un certo punto di vista, oppure un segno dei tempi, che oscilla tra destra e sinistra, in un malcontento generale e in alcune interessate considerazioni di affidabilità per convenienze di vario tipo.

In questi giorni molti analisti si stanno sbizzarrendo in probabili scenari post-elettorali. Secondo alcuni, qualsiasi risultato non dovrebbe sfiorare neppure il governo. Ma non si comprende allora perché un dirigente del Pd, Andrea Orlando, insista nel dire che tutto non può rimanere come prima e occorra necessariamente ridare slancio a questo governo.

Altri parlano apertamente di rimpasto e chi, di fronte a una sconfitta nel voto regionale del Pd, arriva a disegnare un ripensamento generale, magari una “svolta tecnica” con un governo di unità nazionale.

Nel solito scenario tipicamente ipocrita della politica italiana della cosiddetta seconda repubblica, si oscilla tra “il cambia nulla e il cambia tutto”. Ci si rifugia dietro alla “regionalità” del voto. È una sorta di uscita di sicurezza per chi comincia a vedere una inevitabile resa dei conti tra consensi e realizzazioni non rinviabili, tra paura di una recrudescenza sanitaria e timore per i contraccolpi economici in attesa della cosiddetta “valanga” di denaro che dovrebbe arrivare dall’Europa dopo la metà dell’anno prossimo.

Ma i dubbi restano anche di fronte a questa presunta uscita di sicurezza, perché il voto regionale, di cui si parla particolarmente per due regioni come Puglia e Toscana, non può essere slegato dal referendum nazionale, dove se a febbraio scorso i Sì volavano all’80 per cento, oggi i No spaccano trasversalmente tutti i partiti e mettono inquietudine in un’opinione pubblica che ne ha sentito parlare solo da qualche settimana.

Ma in più crea contrapposizioni dure all’interno del Pd, al punto da ipotizzare, secondo alcuni, una doppia sconfitta del Pd, alla regionali e al referendum, con contraccolpi nel partito e a una sorta di sberleffo dei 5 Stelle, se i Sì vincessero senza problemi.

Insomma il test elettorale pare una giostra molto pericolosa dal punto di vista politico, sia per il governo che per l’opposizione, che non si comprende bene che cosa voglia esattamente.

Ma, in tutto questo c’è un aspetto che a noi sembra più inquietante, sperando che non si verifichi: una sorta di astensione di massa sia al referendum, sia alle regionali, sia negli oltre mille comuni dove si vota. Esiste il problema di un’astensione massiccia che rappresenterebbe una sconfitta generale, di sistema, e assommerebbe una sfiducia ormai congenita nella politica a una rassegnazione verso l’incapacità di una classe dirigente a risolvere i problemi. È questo l’enigma contro cui si va a sbattere, pensando anche alla paura di eventuali assembramenti ai seggi e quindi alla paura della pandemia.

Sarebbe un’autentica beffa che al taglio lineare del Parlamento si aggiungesse la diserzione alle urne. I segnali non sono incoraggianti se persino degli scrutatori hanno dato forfait ai seggi. A questo punto, senza scomodare, con la consueta supponenza, l’allineamento dell’Italia ai molti Stati dove votano sempre meno persone, ci si troverebbe di fronte al collasso della partecipazione democratica.