I RISULTATI DELLE ELEZIONI REGIONALI VISTI DA SINISTRA. La bolla. Mi sembra la protagonista numero uno di questa campagna elettorale. Ciascuno di noi è prigioniero della propria “bolla”. In modo particolare le persone che più si informano, leggono, partecipano attivamente a chat e gruppi di varia natura e dimensione, ma che non riescono ad andare oltre la loro cerchia ristretta di relazioni. Mille, duemila, cinquemila? Un continuo e instancabile lavoro, ore attaccati allo schermo, tweet e post da rilanciare, commentare, like da distribuire. Uno spreco inaudito di tempo e la perdita costante della ragione e del rapporto con la realtà. Una coscienza collettiva obliterata. È quello che è successo principalmente ai sostenitori del No.



Il referendum. Sul referendum le bolle hanno creato l’ennesimo falso collettivo. Ciascuno ha rafforzato per giorni la convinzione dell’altro. Non vi era solo la legittima critica ad una modifica della Costituzione. Le “bolle” si sono convinte che era possibile ripetere il giochetto del 2016 che aveva affossato Renzi. Alzare il polverone dell’attacco alla democrazia, l’arrivo dell’orda populista, il solito grave cedimento di Zingaretti, il fastidio per gli incapaci del governo Conte, e voilà il gioco è fatto. Stavolta però non è riuscito. Non sono andate oltre la vittoria nelle circoscrizioni più centrali di Torino e Milano. Altro che Ztl, siamo a qualche isolato in cui si è barricata l’élite di questo paese, grandi giornali compresi.



I sondaggi. Andrebbe fatto un sondaggio sui sondaggi. Li aboliamo? È chiaro che sono fatti male, con pochi soldi e con tecniche superate. Bisognerebbe conoscere gli umori reali di ogni piccola comunità in cui è frantumata l’opinione pubblica, disporre di potenti motori di ricerca, ma qui non si riesce neanche ad entrare più in una casa, senza un telefono fisso. Non servono più a nulla, servono solo alla propaganda.

La Toscana. Qui è successo qualcosa di simile a quello che è successo un anno fa in Emilia-Romagna. Il progressivo spostamento a sinistra del Pd di Zingaretti ha ridato fiducia a un elettorato che aveva rotto il rapporto di appartenenza durante la gestione Renzi. Ha sicuramente fatto il gioco di Eugenio Giani la paura, reale, che si toccava con mano negli ultimi giorni. È toccato a tre emissari della squadra di Zingaretti composta da Oddati, Vaccaro e Furfaro rianimare una campagna che languiva. L’aggressività della candidata leghista, appena appena smussata, ha fatto il resto.



Fishman. È lo spin doctor del momento. Responsabile della campagna della Ceccardi (Lega), di Fitto (Fdi) e di Mangialardi (Pd). La spigliata trasversalità con cui ha scelto i suoi clienti non gli ha evitato un secco 0-3. La cospicua eredità guadagnata un anno fa con il successo della campagna per Bonaccini è stata così dilapidata in pochi mesi sull’altare di quella che potremmo definire “l’ingordigia del comunicatore”.

La Puglia. La classe non è acqua, verrebbe da dire. È il risultato che ha cambiato il corso della battaglia e consegnato la vittoria a Zingaretti. La politica al Sud può essere derisa, ma va prima compresa. Il paradosso è che aveva ragione Salvini, a chiedere candidati nuovi al posto dei due ex governatori incanutiti, alla ricerca di un’improbabile rivincita. Emiliano ha dimostrato di perseguire un progetto preciso, da molti mesi prima del voto. Da quando cioè ha fatto sapere al Pd nazionale che avrebbe fatto le primarie quando diceva lui (e le ha fatte) e che se qualcuno del Pd (leggi Stèfano) voleva fare da sponda ai suoi nemici storici ora coalizzati in Italia Viva, era meglio che si fosse fatto avanti. Ma anche ai 5 Stelle ha fatto sapere che non li voleva più in coalizione. Avrebbero spaventato molti elettori con posizioni diametralmente opposte. Oggi quindi Emiliano è riuscito nell’impresa disegnata un anno fa: sconfiggere i nemici interni, mettendo Calenda, Renzi e Bellanova non solo fuori dal Pd ma anche dal consiglio regionale, e assorbire quasi la totalità dei 5 Stelle. Operazione riuscita, con una certa dose di coraggio.

La Campania e il Veneto. Lo sfondamento plebiscitario dei due governatori più “autonomisti” come De Luca e Zaia segnala come sia forte il bisogno di rappresentanza in alcune regioni del nostro paese. Si tratta di regioni che da anni vivono una crisi di prospettiva, di identità, che l’epidemia ha solo amplificato. Non a caso sono le due regioni che riconoscono di più ai loro rispettivi presidenti non solo di aver agito nei mesi del lockdown con autonomia ma anche con il polso giusto. In definitiva i cittadini hanno riconosciuto ai due governatori di averli letteralmente salvati dal disastro che aveva colpito la Lombardia. Non sono argomenti facili da smontare. 

La Liguria. Sansa si è sacrificato in una battaglia senza speranza per far fare un passettino avanti all’alleanza strategica Pd-M5s. Nella sconfitta, Sansa non è andato male nelle grandi città come Genova e La Spezia, ha dimostrato che i due elettorati sono in grado di parlarsi e smettere di guardarsi in cagnesco, scritto il primo programma comune. L’insensata ripicca della Paita ha spinto Italia Viva in una posizione irrilevante. Ora la battaglia si sposta sui comuni che voteranno il prossimo anno, Genova in testa. E i 5 Stelle devono ammettere di aver raggiunto il miglior risultato in alleanza con il Pd e non contro.

Italia Viva. Il progetto di Renzi subisce una dura battuta di arresto. Capiremo nei prossimi mesi se il colpo risulterà letale. Ora anche la soglia del 4% appare lontanissima e le cose non vanno diversamente anche dove IV va con Azione di Calenda e Più Europa della Bonino. Il Pd ha le carte in regola per rappresentare al meglio quel pezzo di area moderata e riformista che apprezza lo sforzo di governo e non capisce perché bisogna litigare su ogni cosa. Gira voce che Renzi stia cercando un incarico di prestigio all’estero. Per il gruppo dirigente del movimento – dopo questa campagna elettorale – sarà difficile immaginare un ritorno nel Pd alla chetichella.

I 5 Stelle. Se non era per il referendum sarebbe stato un’altra débâcle totale. In ordine sparso, spaccati tra gli unitari ispirati da Travaglio e i fondamentalisti guidati da Di Battista, il M5s è ormai stabilmente lontano dai picchi elettorali raggiunti nel 2018. È una forza dal 10%, presente soprattutto al Sud, su posizioni sostanzialmente legate a pochi temi e ad un modello di partecipazione dal basso ormai obsoleto (la piattaforma Rousseau). L’unica salvezza per il Movimento resta Conte e il ruolo politico che il presidente del Consiglio saprà svolgere in futuro.

Le Marche. A questo punto è l’unico dato davvero inspiegabile. Vince un nostalgico di Fratelli d’Italia e non si è riusciti a far scattare quella mobilitazione avuta in Emilia-Romagna prima e in Toscana poi. Eppure il modello marchigiano è sempre stato uno dei modelli di sviluppo più apprezzato e che ha garantito anni di prosperità. La regione dei Merloni e dei Della Valle, ma anche il regno delle Pmi in settori strategici. Uno dei territori tra i più belli d’Italia. La “bellezza infinita” come sussurra Giancarlo Giannini in uno degli spot più pagati negli ultimi anni. Ma è anche una regione ferita dal terremoto e mal curata, esclusa dalle grandi direttrici di sviluppo, con infrastrutture non più adeguate. Se fossi Zingaretti costringerei tutto il gruppo dirigente, dopo la sbornia per la vittoria, a trascorrere alcuni giorni qui e provare a capire le ragioni vere di questa sconfitta.

Zingaretti. È stato per mesi il pungiball della politica italiana. Il gioco più diffuso era schernirlo, offenderlo, descriverlo come un inetto, un impavido, una banderuola. Per piacere, ora fate le scuse a Zingaretti. Molti dovrebbero ammettere di aver perso tempo nel prevedere scenari di tracolli imminenti, disastri dietro ogni angolo, inevitabili commissariamenti europei.

Zingaretti ha ora davanti a sé un percorso più agevole ma ugualmente non facile. Deve garantire a questo governo una nuova stabilità, aumentarne la velocità di azione e la capacità di realizzazione, rendere più espliciti e concreti gli obiettivi da raggiungere.

Il segretario del Pd, prima di tornare al voto per la nuova tornata amministrativa a cui può guardare con maggiore serenità, deve vincere la sfida europea. “Bisogna spendere e spendere bene centinaia di miliardi che il Paese, solo 11 mesi fa, se li poteva solo sognare” ha detto ieri sera in una dichiarazione a caldo sul voto. Per Zingaretti e la sua squadra saranno mesi importanti, di duro lavoro, di costruzione paziente delle alleanze, con un nuovo partito da immaginare.