Il testo approvato dal Governo su spinta del ministro Calderoli (Lega) sul tema dell’autonomia differenziata, al di là del suo reale contenuto, sta suscitando, come atteso del resto, un grande e contrapposto dibattito tra favorevoli e contrari, un dibattito guidato più dall’ideologia che dal contenuto della proposta, come è tipico degli argomenti che si prestano ad enfatizzare le differenze tra visioni della vita sociale e della politica.
Come capiamo da ciò che ha scritto Lorenza Violini su queste colonne, per gli uni, i contrari, l’autonomia differenziata è il presupposto per dividere il Paese, mentre per gli altri, i favorevoli, è lo stimolo per sviluppare il processo previsto dalla Costituzione e già approvato tramite un referendum e/o trattative tra Stato e Regioni da regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, senza presentare intenti discriminatori e secessionisti.
La sanità, oggetto esclusivo di questo contributo, fa parte delle materie per cui si applica la proposta del Governo, e presenta caratteristiche e peculiarità che vale la pena di esaminare nello specifico, anche perché ha già affrontato da anni alcune delle problematiche che costituiscono il cuore della proposta sul tavolo, come ad esempio i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni, che in sanità si chiamano Lea, Livelli essenziali di assistenza) ed i “costi e fabbisogni standard”.
Cominciamo con l’osservare che i critici più accaniti dell’idea stessa di autonomia differenziata, a prescindere dal contenuto specifico del testo approvato dal governo, sono quelli che sostengono che il Servizio sanitario nazionale (Ssn) deve essere pubblico, ma non nel senso di avere un interesse pubblico bensì nel senso di un servizio sanitario statale. È lo stesso approccio che riguarda la scuola: pubblica o statale?
Come noto, i principi fondamentali su cui si basa il Ssn sin dalla sua istituzione (L. 833/78) sono l’universalità, l’uguaglianza e l’equità, principi che, secondo i critici dell’autonomia, sarebbero minati dall’approvazione dell’autonomia differenziata. Ma come sono attuati oggi questi principi nelle realtà regionali? Proviamo ad analizzarli uno per uno.
Universalità
Questo vuol dire che ci deve essere sul territorio nazionale una organizzazione capillare per cui le prestazioni sanitarie, e nello specifico i Lea, debbano essere erogate a tutta la popolazione, in condizioni di appropriatezza ed efficienza.
Uno sguardo anche rapido a come sono distribuiti i servizi sul territorio (diversa quantità di posti letto ospedalieri, di Rsa e di Adi, che addirittura mancano in diverse zone, di carenze di professionisti, e così via) ci fa concludere che l’universalità è un principio la cui pratica lascia molto a desiderare.
E questa eterogeneità territoriale è persino certificata da quel processo condiviso di valutazione noto come “adempimenti” di cui la griglia Lea costituisce elemento di giudizio quantitativo essenziale per definire che una regione è adempiente (ovvero non adempiente) nell’erogare i Lea. E fino ad oggi più di una regione è risultata non adempiente.
Equità ed uguaglianza
I cittadini a parità di bisogno dovrebbero poter accedere alle prestazioni del Ssn senza distinzioni di condizioni individuali, sociali ed economiche. Anche per questi principi è facile vedere come l’accesso ai servizi sia più difficoltoso per diverse categorie di persone fragili (anziani, soli, poveri), come la migrazione sanitaria sia molto diversificata tra le regioni, come i soggetti economicamente e socialmente più deprivati vadano incontro con maggiore frequenza a peggiori esiti nelle cure o addirittura alla rinuncia alle cure stesse, per non parlare poi dei tempi di attesa delle prestazioni, superati spesso da chi ha la possibilità economica di accedere alla intramoenia o al privato non accreditato.
E si può andare avanti parlando di come la persona sia, ovvero non sia, al centro del Ssn attraverso la libertà di scelta, la presa in carico del paziente, la prossimità nel percorso di cura, l’interazione tra medico e paziente e tra professionisti di discipline diverse; parlando di globalità, essenzialità della copertura assistenziale, da una parte integrando l’assistenza socio-sanitaria, ed anche sociale, e dall’altra cercando di escludere o limitare servizi e prestazioni che rispondono a criteri diversi dall’essenzialità (medicina difensiva, esami inutilmente ripetuti, accanimento diagnostico, profittabilità della prestazione).
Ma anche parlando di responsabilità pubblica della tutela della salute; parlando di sussidiarietà come tentativo di far corrispondere il livello della risposta sociale, politica e amministrativa con il livello dell’interesse e del bisogno del cittadino (prossimità, vicinanza) e così via. Tutti fenomeni, quelli esemplificativamente elencati, che vedono una grande eterogeneità territoriale.
La proposta di autonomia differenziata, al di là del suo contenuto specifico, non è quindi una proposta sorta con questo governo ma è una realtà da molti anni per la sanità del nostro Paese: può piacere o non piacere, ma dobbiamo prendere atto della sua esistenza se non vogliamo discutere di un Paese che non c’è.
Ma ci sono ancora molti altri esempi che dicono come in sanità l’autonomia differenziata costituisca un dato di fatto, un principio già in azione da tempo, volontariamente o involontariamente. Pensiamo alla diversità nella compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini (ticket farmaceutici e ambulatoriali) delle regioni, in particolare di quelle in disavanzo; pensiamo alle diverse modalità e al diverso livello di spesa delle regioni in questi anni; pensiamo alla diversità di quello che le singole regioni versano per costituire il Fondo sanitario nazionale (Fsn) come certificato dalle relazioni al Parlamento da parte della Corte dei Conti.
Pensiamo infine alle diverse modalità con cui le regioni distribuiscono poi ai loro territori le risorse che hanno ricevuto dal riparto del Fsn. E ci fermiamo con gli esempi solo perché vogliamo dedicare qualche considerazione a due argomenti specifici presenti nel documento del governo e che la sanità ha già affrontato individuando criticità, soluzioni e prospettive.
Lep relativi ai diritti sociali
Con un lungo e complesso cammino, il che insegna qualcosa sui tempi che il percorso richiede, la sanità ha definito i Lea, anche se non è ancora riuscita a definire lo stesso provvedimento per le prestazioni sociali. A parte le difficoltà definitorie, che in qualche modo comunque si riescono a superare, sui Lep la sanità fornisce almeno questi insegnamenti.
L’universalismo che dovrebbe essere garantito dai Lep non è automatico e va perseguito con azioni specifiche: la sola definizione dei Lep non è sufficiente per garantire un universalismo che sia reale e non fittizio o formale. Tra la previsione legislativa (definizione dei Lep) e la realizzazione amministrativa (erogazione dei Lep) esiste un grande fossato che può essere superato solo con la capacità amministrativa.
L’erogazione dei Lep va sostenuta con le risorse: occorre definire una modalità equa e condivisa con cui le risorse, una volta determinate nel loro complesso, devono essere assegnate alle regioni, cioè quello che in sanità si chiama riparto del Fsn.
La dinamica della spesa sanitaria nel tempo, nello spazio, tra i diversi attori ed i diversi servizi, è lì a dimostrare come l’enunciazione di un diritto (Lea) non è capace di per sé di dare indicazioni sulla quantità di risorse necessarie per garantire l’esercizio reale di quel diritto. Il processo di erogazione dei Lep va monitorato e valutato (si veda l’esempio della griglia Lea), perché è facile risultare “non adempienti”, e come conseguenza della eventuale inadempienza è necessario prevedere dei provvedimenti da prendere.
L’universalismo deve riconoscere che il nostro paese non è una pianura sanitaria e sociale: la garanzia di erogare i Lep si deve sposare con la prossimità, la sussidiarietà, la vicinanza al bisogno, evitando però di creare territori (anche entro regioni) di serie A e territori di serie B.
In sanità lo Stato ha a disposizione molti strumenti per pretendere dalle regioni il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti da riconoscere ai cittadini (Conferenza Stato-Regioni, finanziamento delle regioni, valutazioni dei Lea, progetti del Pnrr): si tratta non solo di creare o attivare analoghi strumenti per l’autonomia differenziata, ma soprattutto di farli funzionare affinché raggiungano il vero scopo della loro attivazione.
Costi e fabbisogni standard
Le considerazioni che abbiamo proposto a proposito di risorse e spese ci portano dentro il secondo argomento tecnico sul quale la sanità ha da insegnare in tema di autonomia differenziata, questa volta però più nel senso delle difficoltà da superare che delle opportunità.
Il percorso sanitario di identificazione di costi e fabbisogni standard si è dimostrato complesso, accidentato, e non si può ancora ritenere soddisfacentemente concluso. Certo una strada di mediazione si è trovata, ma a parere di chi scrive è ben lontana dall’idea di arrivare a definire dei costi standardizzati, per quanto non necessariamente identici per tutte le regioni.
È la materia stessa che richiede, al di là di ciò che il nome evoca, un approccio diverso e originale perché i Lep non sono assimilabili ad un processo di produzione industriale di cui si possono definire con precisione le singole fasi ed i relativi costi.
Non si tratta semplicemente di individuare un prezzo di acquisto, il costo delle famose siringhe o dei vaccini contro il virus Sars-CoV-2, che abbia una variabilità contenuta tra i diversi territori, ma di trovare un equilibrio tra bisogni, risorse e costi che garantisca il raggiungimento dei principi costituzionali (per la sanità: universalità, equità, uguaglianza).
L’equazione Risorse = Bisogni x Costi in sanità, contrariamente a quanto la logica matematica insegna a proposito di variabili indipendenti e dipendenti, è stata risolta fissando a priori le Risorse (in realtà: variabile dipendente) e lasciando alle regioni il compito di sviluppare a piacimento il prodotto tra bisogni e costi (in realtà: variabili indipendenti). In questo modo chi spende di meno risponde a più bisogni, scaricando sulla mancata erogazione dei Lea, cioè sui bisogni, le proprie inefficienze di spesa. Sarà così anche per i costi e fabbisogni standard dei Lep?
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