Il Governo Draghi è pronto a muovere i primi passi dopo che avrà ottenuto la scontata fiducia del Parlamento. Uno dei suoi obiettivi principali sarà quello di stimolare la ripartenza dell’economia, cercando di andare oltre le previsioni diffuse in settimana dalla Commissione europea che parlano di un +3,4% per quest’anno, anche perché l’Italia sarà uno dei quei Paesi che non tornerà ai livelli di Pil pre-Covid già nel 2022 come invece accadrà all’economia europea nel suo complesso. Vista questa disomogeneità le regole del Patto di stabilità e crescita resteranno sospese anche per tutto l’anno prossimo? «Le previsioni di Bruxelles – ci dice Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena – mostrano, già dal fatto che nel titolo si parli di “luce in fondo al tunnel”, quello che si chiama un cauto ottimismo, ma sottolineano anche l’estrema incertezza dei possibili scenari. Tutto dipenderà dall’efficacia dei vaccini a fronte delle mutazioni del virus.



In questo quadro, benché non siamo stati il Paese più penalizzato nel 2020, siamo uno di quelli dei quali si dice che il ritorno ai livelli pre-crisi non avverrà nemmeno a fine 2022. Non mi è del tutto chiaro su cosa si basino queste valutazioni, ma certo sono poco confortanti. Anche per questo, voglio credere che per la riattivazione delle regole del Patto di stabilità si aspetti al 2023.



Recentemente Christine Lagarde ha ricordato l’importanza di evitare gli errori del passato, non solo per quanto riguarda le politiche monetarie, ma anche per quelle di bilancio. Quanto la posizione della Presidente della Bce può essere presa in considerazione da Bruxelles?

È da tutti riconosciuto il danno che ci portò, dopo la crisi finanziaria del 2008, la fretta di tornare alla normalità della politica monetaria. Nel 2010 vi fu un cambio di segno nell’azione della Bce in senso restrittivo che favorì la successiva ricaduta. Oso sperare che la lezione sia servita e ci sia oggi maggiore cautela. D’altronde, rispetto a dieci anni fa si nota un atteggiamento diverso sulla necessità di usare politiche fiscali espansive per accompagnare la ripresa.



Si dice che il commissario Gentiloni stia spingendo per fare in modo che la “riattivazione” delle regole del Patto di stabilità slitti almeno al 2023 e si parla in questo senso anche dell’ipotesi di riattivare il Patto nel 2022, ma senza richieste di tagliare deficit e debito per altri 12 mesi. Basterebbe un anno in più per evitare il peggio all’Italia?

Come già detto in precedenti interviste con voi, il punto non è un anno in più o in meno. Senza una modifica degli obiettivi rinviare significa solo rimandare il momento della verità. Occorre prendere atto che obiettivi come una riduzione del rapporto debito/Pil fino il 60% in un orizzonte di 20 anni sono ormai totalmente irrealistici, non solo per l’Italia. Se non si interverrà su questo punto e ci si limiterà a modificare procedure e parametri (per esempio, la spesa invece del saldo strutturale) sarà la classica soluzione che cambia tutto per lasciare tutto come prima. Non mi risulta che ci siano informazioni aggiornate sulle direzioni di riforma del Patto di stabilità, ma se devo basarmi sui documenti che giravano fino a inizio 2020 c’è poco di che essere ottimisti.

Non si può certo pensare che il Governo guidato da Mario Draghi infranga le regole europee. Potrebbe però cercare di ottenere più facilmente una “flessibilità” o una minor rigidità dell’applicazione delle stesse nei confronti dell’Italia?

Vale quanto ho appena detto sul fatto che non basteranno modifiche marginali. Anzi, la flessibilità può essere persino peggio, perché per Paesi come il nostro, che si trovano sempre in torto perché devono rispettare regole impossibili, significa che ogni deviazione è soggetta a negoziazione e a una valutazione discrezionale. Quindi c’è sempre la tentazione di condizionare la concessione di deviazioni dalle regole alle scelte di politica interna. Poi non ci si può stupire se la rivendicazione di sovranità diventa una bandiera politica che ottiene tanto consenso.

Si è parlato molto della lettera-appello di 100 economisti con la richiesta di cancellare il debito detenuto dalla Bce. La maggioranza di essi è francese, come lo è anche Laurence Boone, capo economista Ocse, che ha invitato a mantenere la spesa pubblica alta e ad abbandonare l’idea che ci possano essere regole fiscali uguali per tutti per riportare il debito pubblico a un determinato target. Queste voci francesi stanno forse a indicare che anche Oltralpe ci si sente “minacciati” dalle regole europee?

È una proposta che gira tra gli economisti. L’obiezione principale è di carattere per così dire giuridico: i trattati escludono una possibilità del genere, così come nella sostanza escludono la soluzione, equivalente nella sostanza, di un “congelamento” di fatto del debito acquistato dalla banca centrale nel proprio bilancio. Il merito principale della proposta è di aver posto un problema reale, che sono i rischi cui andremmo incontro nel caso in cui la Bce decidesse di interrompere il programma di acquisti e magari rimettere sul mercato i titoli acquistati. L’occasione del Covid toglie dal tavolo l’argomento moralistico per cui il debito sarebbe causato dalla prodigalità dei Governi, quindi è difficile obiettare nella sostanza. Perché in Francia? Penso anch’io che i cugini d’Oltralpe siano molto preoccupati, anche il loro debito è aumentato considerevolmente.

È possibile immaginare convergenze o tra Paesi europei è impossibile pensare che ciascuno non pensi solo ai propri interessi?

Auguriamoci che vi siano queste convergenze, nella consapevolezza che i Paesi fanno principalmente i propri interessi. Anche se la Francia non si è mai spinta fino a mettere in discussione l’asse privilegiato con la Germania, su questo punto possiamo certamente fare sponda.

Lo scoppio della pandemia ha fatto slittare la Conferenza sul futuro dell’Ue. Si prospettano passaggi con la cessione ulteriore di sovranità da parte dei Paesi membri?

Ma perché, il Recovery Fund non è esso stesso una rilevante cessione di sovranità? La più importante occasione di ristrutturazione della nostra economia degli ultimi decenni sarà validata a Bruxelles, in base a impegni di riforma che devono essere in linea con le raccomandazioni della Commissione.

Almeno questa ristrutturazione servirà a farci crescere quanto la media europea?

Le previsioni della Commissione, comprensibilmente, non prendono in considerazione gli effetti del Recovery Fund (o Next Generation Eu), visto che nessun Paese ha ancora definito i propri progetti di spesa. Rispondere in questo momento sarebbe pura speculazione, quindi comprenderà se anche io mi astengo dal fare previsioni e mi limito a un auspicio. Ma teniamo presente che, rispetto alle dimensioni della caduta del Pil che abbiamo sofferto nel 2020, i miliardi del Recovery Fund sono solo una piccola parte della soluzione.

(Lorenzo Torrisi)

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