Il Sussidiario ha segnalato per tempo la proattività della Chiesa cattolica e dello Stato ebraico di fronte alla guerra russa in Ucraina. Entrambi si sono proposti come mediatori per un rapido cessate il fuoco (ambedue le offerte sono state pero’ lasciate cadere da Vladimir Putin). E né Roma né Gerusalemme hanno mostrato esitazioni nel muoversi entro la peculiarità complessa di una doppia natura: di entità statuali – capaci di diplomazia sullo scacchiere geopolitico – e di baricentri di grande comunità religiose globali, custodi vivi di rami di fede abramitica.
Già nei primi giorni della crisi papa Francesco ha visitato l’ambasciatore russo presso la Santa Sede: un passo inedito quanto il blitz del Premier israeliano Naftaly Bennett al Cremlino in giorno di “shabbat”. È da allora che il Pontefice è attaccato da coloro che si attendevano – o pretendevano – una condanna formale della “guerra russa” in Ucraina. Risale a quegli stessi giorni l’adesione di Israele alla mozione dell’Assemblea generale Onu di condanna dell’aggressione russa all’ordine internazionale: peraltro unico passo politico in questa direzione da parte di un Paese di fatto alleato militare della Russia sui cieli siriani in funzione anti-iraniana. Israele – come il Vaticano – è schierato con l’Ucraina sul piano umanitario: non su quello politico-militare, come invece i Paesi Nato.
Il Papa, da subito, ha affrontato a viso aperto la complessità di una guerra esplosa in un’area del pianeta connotata da radici cristiane antiche e tuttora vitali e maggioritarie, ancorché articolate oggi fra una delle Chiese cattoliche orientali tre autocefalie ucraine fra le 15 ortodosse. Tutte queste ultime sono a loro volta in posizione mobile fra il primato di Costantinopoli (più aperto all’Occidente e all’ecumenismo) e quello di Mosca, oggi fermamente al fianco del nazionalismo russo all’offensiva in Ucraina.
È stato verso il patriarca Kirill che papa Francesco ha ripreso l’iniziativa: per una una sollecitazione fraterna forte e non scontata. Gli ha ricordato il loro storico avvicinamento ecumenico del 2016 a Cuba (epicentro, mezzo secolo prima, della crisi geopolitica più famosa del dopoguerra, fra Occidente euramericano e Oriente marxista-leninista). Gli ha ricordato la “linea rossa” invalicabile da parte di una Chiesa cristiana nei confronti di qualunque politica in guerra: diversa da ogni “linea rossa” puramente diplomatico/militare in un orizzonte strettamente geopolitico.
Un terzo passo affatto non di rito, da parte del Pontefice, è stato il rovesciamento di un’insidiosa “linea rossa” ancora tratteggiata: la consacrazione al Sacro Cuore di Maria è stata preannunciata non solo per la Russia (si dice che la richiesta fosse stata espressa personalmente da Putin in visita in Vaticano), ma anche per l’Ucraina (non è mancato chi ha letto nella filigrana dello shock geopolitico anche il timing dell’annuncio della riforma della Curia romana: con la rivisitazione del ruolo politico-diplomatico della Segreteria di Stato e la creazione “profetica” di un nuovo Dicastero per l’Evangelizzazione, presieduto direttamente dal Papa. Nel frattempo al confine fra Polonia e Ucraina si è presentato fra i volontari per l’accoglienza dei profughi il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Papa, capo designato del nuovo Dicastero per la Carità).
Lo stesso Israele – di fronte alla mega-emergenza ucraina – è quotidianamente alle prese con varie “linee rosse”. La più visibile è emersa domenica, quando il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è collegato con la Knesset. Ha riproposto – com’era avvenuto nel discorso al Bundestag tedesco – l’avvicinamento fra il “martirio” del Paese aggredito dalla Russia e l’Olocausto. Parecchi parlamentari di Gerusalemme – nonché parte dell’opinione mediatica – non hanno affatto gradito: la Shoah resta una categoria assoluta, astratta dalla storia; e la sua memoria è definitivamente indisponibile a qualunque politica. Anche se a invocarla è un israelita come Zelensky, Presidente di un Paese invaso dai nazisti e teatro di sterminio di ebrei nel 1941-45.
Una seconda linea rossa – non ancora dipinta con colori indelebili – sta attraversando politica e Governo dello Stato ebraico sui criteri di accoglienza dei profughi ucraini: solo gli israeliti (sempre “accoglibili”) oppure anche i non ebrei?
Una terza e articolata linea rossa sta dipanandosi attorno alle relazioni con gli Usa, terra della più importante – e potente – comunità ebraica del pianeta (lo stesso Bennett è figlio di due ebrei californiani e ha lavorato come finanziere a Wall Street). A Washington sta crescendo la freddezza per un’apparente “terzietà” di Israele verso la guerra russo-ucraina, ritenuta eccessiva. Ma l’insoddisfazione politica sembra celare una specifica frattura in allargamento all’interno della comunità israelita Usa: fra quella di tradizionale fede “dem” liberal/radical (soprattutto sul fronte accademico e mediatico) e quella più recentemente consolidatasi attorno alla relazione preferenziale fra due freschi ex, Donald Trump e Bibi Netanyahu. I quali – appena due anni fa – siglarono a Washington il cosiddetto “Piano Abramo”: che legittimava parzialmente l’annessione a Israele dei Territori palestinesi. L’obiettivo era – e sulla carta resta tuttora – la cancellazione (bilaterale fra Usa e Israele) della settantennale “linea rossa” per definizione nella geopolitica globale: teatro di quattro guerre piene fra Israele e Paesi arabi confinanti e di innumerevoli altre operazioni militari al confine libanese-siriano, a Gaza e in Cisgiordania.
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