“Ricordate il quadro di Rembrandt? Dove il figliol prodigo è lo specchio del volto del padre. Il volto del padre è pieno di dolore per l’errore del figlio, per la sua negazione; pieno di dolore per la sua negazione che rifluisce tutto in perdono. E fin qui l’umano riesce ad arrivare. Ma la cosa più spettacolosa e misteriosa è che la faccia del padre è il figliol prodigo, la faccia del padre è lo specchio del figliol prodigo. Perché nel quadro di Rembrandt il padre è in una posizione speculare rispetto al figliol prodigo; in lui si riverbera il dolore del figliol prodigo, la disperazione salvata, la distruzione impedita, la felicità che sta per riaccendersi, nell’istante in cui sta per riaccendersi, dove trionfa la bontà. Trionfa la bontà nel figliol prodigo perché piange per il dolore fatto al padre, ma trionfa la bontà nel padre! Questo è il concetto di misericordia che l’uomo non può arrivare a capire, che l’uomo non può arrivare a dire”. (Luigi Giussani, L’autocoscienza del cosmo)



Tornare indica il gesto di chi si volge, di chi cambia la direzione del cammino per muovere verso il luogo da cui si era allontanato, da cui era andato via. Quando si dice “tornare”, si pensa subito alla casa. E dove si può tornare se non “a casa”?

Ma il tuffarsi ginocchioni del figliol prodigo ai piedi di suo padre è innanzitutto il ritorno da una lontananza, da un’ultima dolorosa estraneità.



Rembrandt la cancella di schianto, dando mirabilmente forma, luce e colore alla pagina del Vangelo dedicata al figliol prodigo. Si contempla così, in questo abbraccio, una longanime paternità che, del figlio pentito, accoglie l’umile consegna del cuore.

È un padre ricco e sontuosamente vestito quello che Rembrandt fissa mentre si china sul suo ragazzo, logoro di solitudine.

Gigante l’uomo che si abbandona confidente a questa misericordia, che accetta lo scarto di questa sproporzione, che si ricovera nel grembo di queste viscere perché la veste di sacco si muti in abito di gioia.

Spiccano nel dipinto i piedi nudi e consunti del giovane insieme alle mani grandi del vecchio, ruvide di tenerezza.



Come è vetusta questa paternità e tuttavia, potremmo dire, quanto temporalmente eterna: solo l’attesa paziente dell’unico Padre può dunque “salvare il presente del tempo”, vincerne cioè la contraddizione, piegarne le impennate, ospitarne gli improvvisi ritorni nella tacita resa a quella originaria corrispondenza del cuore dove l’io può finalmente riconoscersi, per aderire alla solidità di un Tu che ogni volta lo riprende e lo accoglie.