Un film con una premessa intrigante, un’ambientazione che rimane impressa e un’ottima fotografia, elevato dalla performance di Hugh Jackman. Trattandosi del debutto alla regia della sceneggiatrice Lisa Joy, è paradossale che il punto più debole della pellicola sia proprio la scrittura, ma procediamo con ordine.
In una Miami sommersa a causa del riscaldamento globale e scossa da conflitti sociali si muove Nick Bannister (Hugh Jackman), ex-soldato e moderno ipnotista che permette ai suoi clienti di rivivere i loro ricordi grazie a una macchina portentosa. Quando la sua vita viene scossa dall’incontro con una donna enigmatica (Rebecca Ferguson), scomparsa con la stessa rapidità con cui l’ha conquistato, Nick sarà costretto a immergersi nelle proprie memorie per indagare sul passato di lei, scivolando in un mondo di corruzione e segreti alla ricerca ossessiva di risposte.
Una premessa ambiziosa sorretta dalla prova attoriale di Hugh Jackman: il suo Nick Bannister è un detective noir vecchio stile, dotato di un’intensità che l’attore aveva già esibito in Prisoners, dove interpretava un padre di famiglia disposto a tutto pur di ritrovare suo figlio, e The Prestige, nei panni di un prestigiatore impegnato in una rivalità senza quartiere. Il nostro protagonista vaga per le strade di una Miami inondata, dove la gente si muove di notte e si nasconde di giorno; un mondo che soffre gli strascichi di una rovinosa guerra e tira avanti di nostalgia, come ci illustra Nick stesso in voice-over, stilema del genere noir.
La mitologia del mondo sommerso è un altro punto di forza del film, assieme alle sue ambientazioni decadenti e maestose, arricchite da una fotografia che contrasta ombre e luce dorata creando scenari da sogno lucido. Tuttavia non si può dire che l’elemento post-apocalittico venga sfruttato a pieno, ed è anzi come se il film non ci credesse fino in fondo: ad esempio, ci viene detto che le persone vivono di notte perché le giornate sono diventate troppo calde, ma il nostro protagonista passa metà del suo tempo al sole e in maniche lunghe senza che ciò gli causi il minimo affanno. Questo è solo uno dei tanti esempi di come la natura del mondo distopico, a cui viene dedicato ampio spazio, non si interseca mai con l’effettiva trama, che si sarebbe tranquillamente potuta svolgere in qualsiasi altro tempo e luogo.
Il film è pieno di simili “ma”, qualità e pregi che non vengono valorizzati a dovere o sono appesantiti da problemi di ritmo e tono. Le scene d’azione sono ben coreografate e mostrano una certa inventiva, ma non portano avanti la trama e risultano quindi male integrate; la macchina dei ricordi, usata dal protagonista per condurre le sue indagini, permette alla regia di mettere in scena determinati eventi tramite soluzioni originali, ma queste fungono da cornice a un intreccio già visto in mille altri noir, che non si sforza di giocare con i cliché del genere e si limita ad applicarli rigorosamente.
È proprio la scrittura il peccato mortale del film, a cominciare dai dialoghi: tutti i personaggi, dalla femme fatale all’ultimo sgherro della malavita, parlano come se fossero filosofi, psicologi e poeti al tempo stesso. Nessuno di essi ha una propria voce individuale, con l’eccezione forse dell’eccentrico boss Saint Joe (Daniel Wu), e le loro battute sembrano prese dai paragrafi di un libro, il che andrebbe bene se stessimo parlando appunto di un libro e non di conversazioni tra normali esseri umani. Questo tipo di linguaggio fiorito avrebbe potuto funzionare se fosse stato limitato ai pensieri in voice-over del protagonista, e invece ricorre allo stesso modo sia nei suoi monologhi, sia nel parlato vero e proprio, rendendo le due modalità di narrazione indistinte. Il film inoltre è denso di dialoghi che martellano lo spettatore sempre con gli stessi temi e concetti, come se non si fidasse della sua soglia dell’attenzione, e quindi il minutaggio di due ore scarse risulta paradossalmente prolisso.
È dal 2013 che lo script di questo film rimbalzava negli studios di Hollywood, e non è difficile intuirne il perché. La trama è priva di spinta: se nel sopracitato Prisoners lo spettatore poteva empatizzare con l’antieroe di Hugh Jackman in virtù della scomparsa del figlio, qui il suo detective è consumato dall’ossessione per una donna che conosce appena e il cui rapporto con lui è poco sviluppato, il che lo fa apparire infantile e meschino. La figura dell’eroe con difetti è tipica del genere, ma il nostro Nick Bannister sembra avere solo quelli: è ingenuo, impulsivo, ha costantemente bisogno di essere salvato ma rifiuta l’aiuto della sua spalla (Thandiwe Newton), che nonostante abbia il suo personale e raffazzonato arco narrativo scompare nel nulla a metà film. Come in ogni noir l’intrigo con la femme fatale sfocia in un caso dalla portata più ampia, che però non sembra interessare particolarmente ai protagonisti, e allora come dovrebbe fare il pubblico ad appassionarsi?
In conclusione Reminiscence è un film visivamente impressionante, dotato di ottimi spunti e di un’atmosfera in grado di catturare lo spettatore nel suo mondo di illusione e nostalgia, se quello è disposto sorvolare sui dialoghi macchinosi e un soggetto inutilmente contorto. L’amara ironia è che saranno proprio coloro che dovrebbero essere più interessati a questa pellicola, cioè gli appassionati del noir e della fantascienza, a soffrire maggiormente le sue incongruenze sul fronte di entrambi i generi.
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