Mentre infuria la polemica tra gonzi veri e gonzi finti, Renzi è andato – a suo dire per un’importanza meeting internazionale di ex primi ministri trombati, tra cui lo spagnolo Aznar – a sciare a 4mila metri sulle nevi dell’Himalaya. Un modo concreto di combattere il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacciai di casa nostra.



Intanto in Italia, di fronte all’azione distruttiva del leader di Italia viva nei confronti del governo che egli stesso ha contribuito a far nascere solo 6 mesi fa, incominciano a fioccare le confessioni e i pentimenti di chi a Renzi aveva creduto e dato fiducia. Primo fra tutti Michele Serra. L’opinionista di Repubblica ha ammesso di essere in fondo un gonzo, perché c’è cascato in pieno, ha creduto nella funzione salvifica del giovane sindaco di Firenze, quando – all’inizio della scalata del Pd – prometteva mari e monti, e sembrava essere la soluzione tanto attesa per risollevare le sorti, già critiche, della sinistra italiana.



L’autocritica di Serra ha ovviamente dato avvio ad una valanga di commenti sarcastici da parte di quanti non si sentono affatto gonzi, e rivendicano fieramente di aver capito sin dal primo momento il pericolo rappresentato dal giovane fiorentino, che ha conquistato il Pd solo per accelerarne la fine.

In effetti, rileggendo la sua veloce parabola, oggi è molto facile definirlo come un corpo estraneo alla sinistra. Renzi ha avuto sul corpaccione della sinistra italiana l’effetto di una massiccia dose di metanfetamina. Appena ingerita, il partito ha incominciato a funzionare a meraviglia, l’eccitazione ha contaminato un po’ tutti e l’iperattivismo ha avuto lo stesso effetto di un allucinogeno, trasformando il 40% delle europee nel miraggio della terra promessa riformista.



Poi l’effetto è svanito e sono iniziate le sofferenze, i dolori, la febbre, le fibrillazioni, fino alla rottura finale. Come in una dura esperienza di disintossicazione, il Pd ha cercato il tempo per ritrovare il suo equilibrio, per ricostruire un discorso da comunicare, per riallacciare il rapporto con il suo popolo. Ha messo fine alla ricerca della velocità, della manovra spericolata, del nuovo ad ogni costo. Potete dire che questa svolta vi annoia, ma la sinistra è questo, e non si vede proprio perché dovrebbe cambiare.

Vi è però una novità, mai accaduta prima. Con Renzi e il plotone di Italia viva è uscita dal Pd un’intera componente, quella che si autodefinisce riformista, che ritiene Renzi l’unica chance per far vincere la prospettiva del cambiamento. A sinistra come a destra la componente riformista non è mai stata maggioritaria, anche se per lunghi periodi ha dominato, determinando la linea politica e la formazione dei gruppi dirigenti.

Avviato con Zingaretti il riavvicinamento con il Movimento 5 Stelle, l’ala riformista ha maturato una reazione durissima. Si convince dell’inevitabilità della rottura, spinge Renzi su posizioni estreme, auspica lo scontro frontale, come ad un certo punto diventa la questione della prescrizione.

La componente riformista rimane essenziale per la sinistra, e non si può assistere inermi al suo auto-isolamento. O addirittura pensare di cacciarla via, spingerla tra le braccia della destra, come in maniera maldestra ha auspicato Goffredo Bettini. L’anziano dirigente romano – a cui piace molto essere considerato l’ispiratore di Zingaretti – ha così nuovamente trascinato il segretario del Pd in un’inutile e dannosa diatriba anti-renziana. Facendo di fatto il gioco di Renzi, che come al solito ama fare la vittima.

I riformisti da soli contano molto poco. Elettoralmente sono poco più che un partitino da prima repubblica. E i sondaggi di oggi lo confermano. Ogni qual volta hanno tentato di dar vita ad una formazione politica da soli – riformista al 100 per cento – hanno ottenuto risultati insignificanti. Questo non vuol dire che essi non abbiano una funzione importante all’interno di forze politiche più grandi. È da soli che accentuano il loro settarismo, il loro spirito minoritario.

Bettini si illude di poter risolvere il problema delle tensioni con Renzi sostituendo questa componente della maggioranza con le pattuglie raffazzonate dei parlamentari dispersi. È una ipotesi rischiosa, che una forza seria come il Pd non può prendere seriamente in considerazione. Altra cosa è immaginare per il futuro un raggruppamento moderato in grado di affrontare il giudizio degli elettori, guidato da Conte e mosso dal bisogno di stabilità, sempre molto forte in una fascia di elettorato preoccupata per la litigiosità della politica italiana.

Dire che il progetto a cui con tanta enfasi Renzi ha dato vita sia ormai condannato all’irrilevanza, non significa accettare l’idea che una forza come il Pd possa rinunciare a dialogare con quell’area, nonostante sia oggi astiosamente ostile al nuovo gruppo dirigente.

Sembra eccessivo dirlo oggi, ma occorre che proprio Zingaretti si impegni con la stessa pazienza dimostrata nell’abbattere il muro che divideva gli elettori del Pd da quelli dei 5 Stelle, per scongiurare la deriva di destra della piccola formazione renziana. Del resto il Pd si è assunto questo compito: gli italiani lo immaginano come il partito più unitario, capace di costruire un campo largo e di vincere tutte le resistenze settarie.