Philippe Bas – già segretario generale dell’Eliseo al tempo di Jacques Chirac e senatore prima dell’Ump e poi dei Repubblicani e oggi questore del Senato della Repubblica Francese – ha scritto il 14 gennaio 2021 un articolo su Le Figaro che rimarrà nella storia e in cui afferma che “Le système politique issu de la Ve République est en ruine”. Il contenuto si potrebbe riassumer così: il Parlamento è stato svuotato via via d’ogni sua prerogativa legiferante, il Presidente della Repubblica ha via via assorbito in sé le funzioni e le prerogative del Primo ministro, così distruggendo il dualismo del regime presidenziale e indebolendo il sistema di contrappesi costituzionali che ne costituiva la forza.
Un processo assai simile nei risultati sta succedendo negli Usa e nel Regno Unito, dove il Parlamento è stato via via indebolito a partire dal referendum sulla Brexit. E, di converso, si pensi a ciò che sta succedendo nei regimi parlamentari non presidenziali come la Spagna, l’Italia e la Germania e si comprenderà perché anch’essi sono in una crisi profonda che la pandemia non ha fatto e non fa che ampliare. La Spagna non riesce a contemperare le diversità nazionali nell’unitarietà statuale perché i partiti si sono sgretolati via via e la Monarchia anch’essa è andata in rovina per il crescente discredito. La Germania, dopo i quindici anni della cancelleria Merkel, non riesce a trovare un baricentro politico che consenta una transizione verso un nuovo orizzonte, nel lento processo di delegittimazione del centro politico cristiano e insieme della socialdemocrazia, erosa dalla perdita di quella identità welfarista che ne aveva fondato le fortune dopo Bad Godesberg.
In Italia, dopo quel processo di delegittimazione della politica iniziato con Tangentopoli e la sostituzione del potere giudiziario al potere politico, anche quella sostituzione si è frantumata con gli effetti terribili provocati dal crollo di quel potere giudiziario, discreditato anch’esso dalla sua interna decadenza, che lambisce i più alti gradi della piramide allargata repubblicana. Il cemento che teneva unite le pietre della piramide, ossia i partiti scelti dall’elettorato e non dalle loro interne oligarchie, si è da tempo sciolto come neve al sole.
Dopo il 2011, dopo quello che fu una sorta di colpo di stato internazionale a livello europeo contro il governo Berlusconi-Tremonti, la macchina dei partiti non poteva che polverizzarsi via via. Da un lato, la nascita dell’aggregazione temporanea che io ho chiamato “mucillagine peristaltica” dei Cinque Stelle e, dall’altro lato, la trasformazione in compagnie di ventura degli eredi del Partito democratico e degli altri partiti minori. La sinistra democristiana aveva di già dilavato del programma e della dignità ciò che rimaneva della tradizione comunista che si era – come aveva previsto Augusto Del Noce – rapidamente trasformata, da Berlinguer in poi, in un partito radicale.
Ma ciò che accadde non fu la trasformazione di ciò che rimaneva del Pci in partito radicale di massa, come pareva a Del Noce. La massa s’era dispersa e frantumata in piccoli gruppi disperati, perché il processo di secolarizzazione da un lato e il politically correct dall’altro avevano otturato e invaso tutte le arterie e le vene del sistema politico.
E veniamo all’oggi. Alla farsa oggi in corso. La disgregazione italiana ha assunto ormai una forma specifica e irreversibile: la concentrazione del potere nelle mani di un Primo ministro senza che la Costituzione lo preveda e che nessuno a ciò si opponga veramente. Tutti pensano di trarne un profitto e per questo le conseguenze saranno terribili, vista anche la pandemia in corso. Il processo è iniziato, però, nella seconda metà del decennio Novanta del Novecento, al tempo delle privatizzazioni senza liberalizzazione, modello Eltsin-Prodi-Menem. Un processo di distruzione dell’economia e del potere politico costituzionale reso agevole dai governi di ampia coalizione dell’Ulivo, proprio per la loro instabilità e la loro permeabilità a tutte le pressioni poliarchiche internazionali, finanziarie e oligopolistiche (mentre predicavano – invece – liberalizzazione e creazione delle authorities che agivano da schermo e da velo dei processi di dilavazione delle ricchezze private e pubbliche in corso).
Le maggioranze instabili, del resto, sono le forme delle macchine caciquistiche che in Europa e nel mondo prevalgono nei confronti dei passati processi di costituzionalizzazione politica, come documentano le vicende sudamericane, nordamericane, giapponesi e indiane – anch’esse caratterizzate dalla crisi degli storici partiti politici (l’Apra in Perù, il Partito Repubblicano negli Usa, il Partito Liberale in Giappone e quello del Congresso in India ne sono gli esempi più preclari).
L’Europa senza Costituzione governata dai poteri di fatto e senza un Parlamento compulsivo (non fa leggi, ma applica o respinge solo direttive tecnocratiche) è il centro di diffusione di tale processo. La chiave del processo in corso e di cui in Italia assistiamo in vitro alla decantazione, ormai da anni è la trasformazione del rapporto tra economia e politica, promosso dalla centralizzazione capitalistica necessaria per rispondere alla caduta del tasso di profitto e dei salari, provocata dalla deflazione secolare e dallo spostamento del reddito dal lavoro al capitale in misura gigantesca, erodendo in tal modo le basi stesse del consenso democratico. Esso non può più esercitarsi nelle forme classiche del secondo dopoguerra e di tutto il Novecento. I partiti di massa, davanti alla disgregazione sociale, non possono più né esistere, né rappresentare alcunché, perché essi, proprio per la loro natura, hanno bisogno di stabilità sociale e, di fatto, di crescita economica. Ma la crescita economica da quarant’anni è stata sostituita dalla crescita finanziaria e dal debito pubblico e privato. La democrazia sociale non ha più le sue basi materiali.
La crisi politica in corso in Italia non è la crisi del Governo Conte. Tale Governo da tempo non ha più legittimazione né costituzionale, né politica perché è sostenuto da un Parlamento che ha negato se stesso, dimezzando i suoi componenti e continuando a fingere di legiferare sotto la gragnola di colpi dei decreti del presidente del Consiglio.
Ben si comprende, se si coglie la sostanza profonda del processo, perché la crisi politica in corso sia un prodotto di conflitti poliarchici – e quindi di spartizione delle risorse (ora ci sono quelle europee, domani ce ne saranno altre, sempre di natura debitoria, mutulizzata o meno) – tra le compagnie di ventura che si presentano alle masse come partiti politici, mentre invece sono caucus di interessi personali e di piccoli gruppi a base elettorale. La più aggressiva, una sorta di replica farsesca del Lodovico il Moro di machiavelliana memoria, è quella guidata da Matteo Renzi, che non a caso appena avvicinatasi al bottino si sta di già disgregando, consentendo così, come volevasi dimostrare, la continuazione del Governo Conte. Così continuerà sino alla rielezione del presidente della Repubblica, Presidente che è il punto archetipale – non può non esserlo, nella distruzione di tutti gli altri punti di appoggio del processo politico – del rapporto con la macchina tecnocratico-politica dell’erogazione delle risorse europee, delle risorse da spartirsi.
Sino a quando le contraddizioni non esploderanno, la centralizzazione capitalistica oggi in corso non lascerà il posto a una lotta fratricida, che sarà però inevitabile nel prossimo futuro. Cosa rimarrà, allora, dell’Italia? È una domanda che non ha risposta.