Ieri Moody’s ha pubblicato un report in cui ha avvisato gli investitori che la corsa al riarmo nei Paesi Nato “complicherà gli sforzi di riduzione del debito e potrebbe indebolire il loro profilo di credito” facendo salire il livello del conflitto sociale. Secondo l’agenzia di rating, “Spagna e Italia sono particolarmente vulnerabili” perché hanno “maggiori gap nella spesa per difesa (rispetto all’obiettivo Nato del 2% del Pil, ndr) e i livelli più bassi di sostegno popolare a ulteriori aumenti di spesa militare”.
Dato un limite di spesa e di deficit, se gli investimenti nel settore della difesa devono salire per importi che si misurano in decine di miliardi e in punti di Pil allora bisogna sacrificare altre voci di costo. L’equazione è elementare ed è nota e discussa con frequenza crescente. Una settimana fa il Wall Street Journal spiegava ai propri lettori che “la minaccia russa obbliga l’Europa a scegliere: sostenere la difesa o proteggere la spesa sociale”; per sciogliere gli eventuali dubbi rimasti il quotidiano di Wall Street aggiungeva “si prospettano decisioni difficili”. Il ministro degli Esteri lituano aggiungeva settimana scorsa che occorre “ridefinire il contratto sociale”. L’Italia dovrebbe trovare circa 20 miliardi di euro aggiuntivi all’anno solo per arrivare all’obiettivo del 2% del Pil speso per la difesa. Nel frattempo continua lo sforzo sulla transizione energetica che costa all’Italia circa dieci miliardi di euro all’anno in incentivi.
La questione sollevata da Moody’s si colloca nel campo della finanza e in quello politico. Se l’Italia decide di sacrificare la spesa sociale allora apre il conflitto interno; se sacrifica la difesa deve trovare una nuova collocazione geopolitica. Se invece non sacrifica né la difesa, né la spesa sociale allora si deve aspettare che gli investitori e l’Europa le presentino il conto. Non si tratta di un problema di breve periodo perché l’esercito europeo è da rifare tanto più se il nuovo inquilino della Casa Bianca deciderà una nuova forma di collaborazione atlantica. Il tempo necessario per ricostruire la difesa europea si misura in molti anni; per qualcuno servono due decenni.
C’è in realtà un’ultima opzione. L’Europa potrebbe decidere di sostenere questi investimenti con una qualche forma di monetizzazione del debito necessario per completarli. La spesa per la difesa verrebbe coperta dall’Europa e dalla sua banca centrale con emissioni dedicate. Non è chiaro quale livello di tagli interni sarebbe comunque richiesto perché stampare moneta, anche per le cause più nobili, non è mai gratis. Il conto si presenta sotto forma di inflazione e di svalutazione della moneta. Se per fare in fretta poi, come ipotizzato qualche giorno fa dal ministro della Difesa francese, si decide di requisire le fabbriche, la questione diventa ancora più chiara. La quantità di materie prime e componentistica disponibile è “data” in un orizzonte temporale di medio periodo; se si usano per i carri armati, con i soldi “gratis” dell’Europa, non si troveranno per i frigoriferi o per le confezioni degli alimentari e questo ha un effetto inevitabile sui prezzi.
I primi due anni di guerra hanno già prodotto una crisi energetica e quella dell’industria europea messa in scacco dai rialzi dei prezzi del gas e dell’elettricità. I mercati finanziari, invece, hanno continuato a salire e i rendimenti delle obbligazioni statali italiane scendono ormai da mesi. Il riarmo dell’Europa però non è ancora partito. Invece pare sia già partito quello degli investitori che si preparano per tempo.
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