La puntata di «Clandestino» trasmessa a novembre 2019 sul canale «Nove» del network Discovery dedicata all’infiltrazione della ndrangheta fino a Milano era un falso. Nessun boss latitante, nessun sicario che racconta al giornalista cosa significhi vivere per uccidere su ordine di una delle più potenti organizzazioni criminali del Pianeta, e neanche nessun racconto in presa diretta dei corrieri della droga. Quel servizio era tutta una messinscena. Lo hanno stabilito le indagini che hanno portato nei giorni scorsi il sostituto procuratore della Repubblica Alessandra Cerreti a notificare un avviso di garanzia alle quattro persone accusate di truffa in concorso, tra cui figura anche il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, volto della serie tv dedicata alle realtà criminali più pericolose del Pianeta. Anziché affiliati alla ‘ndrangheta, come riportato dal Corriere della Sera, i soggetti facenti parte del documentario erano infatti soltanto attori o comparse…



Reportage sulla ‘Ndrangheta a Milano in onda su Discovery era un falso

A far crollare il castello di carte costruito per la realizzazione del reportage è stata l’intuizione di un carabiniere, peraltro un telespettatore del programma. E’ stato proprio lui, militare della stazione Porta Monforte, a notare che uno dei palazzi spacciati come centro di raffinazione della droga era in realtà uno stabile in zona Barona che nulla aveva a che vedere con la ‘ndrangheta. Da lì hanno avuto inizio le indagini che hanno portato alla messa sotto indagine, oltre al reporter iberico,  anche di Rosaura Romero Trejo, venezuelana 43enne, e Franck Belhieu Nahmias, 33 anni, spagnolo, responsabili della società «93 Metros», e dell’italiano Giuseppe Iannini, brindisino domiciliato in provincia di Caserta, ex appartenente alle forze dell’ordine con  precedenti. Proprio la «93 metros», stando alla ricostruzione, come riportato dal Corriere della Sera, “ha violato il contratto con Discovery Corporate Services, società londinese del gruppo Discovery Italia (che in questa vicenda è parte offesa), dove era stato stabilito «espressamente» che i fatti oggetto del contratto dovessero essere «veritieri». Invece gli organizzatori della truffa avrebbero venduto un documentario artefatto per la somma di 425mila euro”.

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