Rwanda. Un paese bellissimo grande poco più del Piemonte con una densità di popolazione di circa tre volte tanto. Il paese delle mille colline, dei gorilla di montagna di Dian Fossey e delle piantagioni di tè ma soprattutto, nella mente collettiva, il paese degli Hutu e dei Tutsi dove, nel 1994, per 100 giorni, si consumò uno dei più spaventosi genocidi dell’epoca moderna da parte degli Hutu nei confronti dei Tutsi.



La contrapposizione tra questi due gruppi ha radici antiche e profondissime. Risale al 1300, quando i Tutsi arrivarono in questa regione abitata dai Twa (pigmei) e dagli Hutu (bantù) e prosegue nel 1600 quando il re Tutsi Ruganzu Ndori sottomise il paese. Nel 1800 l’esploratore inglese Speke sarà il primo europeo a raggiungere queste terre che, con la conferenza di Berlino (1885), diverranno parte dell’Africa orientale tedesca per poi passare al Belgio (1916). Quest’ultimo governerà il territorio, allora chiamato Rwanda-Urundi, attraverso i re Tutsi introducendo le divisioni etniche tra Hutu, Tutsi e Twa come strumento di potere politico. Già dal 1957 gli Hutu, di gran lunga l’etnia più numerosa del paese, iniziarono a pretendere una più giusta ripartizione del potere e questo portò a sanguinosi scontri interetnici. Tra il 1961 e il 1962, il Rwanda e il Burundi si dichiararono stati indipendenti, entrambi retti da governi Hutu. Da allora ripetuti massacri, carneficine e incursioni tra Huti e Tutsi hanno segnato la storia di questi due paesi.



In Rwanda, nel 1994, in circa tre mesi, si consumò un vero e proprio genocidio, pianificato e organizzato da tempo (erano state redatte in anticipo le liste delle persone influenti da uccidere, ed erano stati distribuiti 500mila macheti ordinati e arrivati dalla Cina), da parte degli Hutu nei confronti dei Tutsi. A tutto questo pose fine il generale Kagame che, con le sue milizie Tutsi (Fpr), il 4 luglio 1994 prese la città di Kigali e iniziò una durissima repressione contro le squadre paramilitari Hutu e chiunque avesse avuto parte nei massacri. Questi cento giorni di massacri lasciarono dietro di sé un numero di vittime che nessuno saprà mai (si parla di un milione), una quantità di profughi (2 milioni) in parte morti nei campi di raccolta del Congo e in parte inghiottiti dalla foresta il cui destino nessuno conoscerà mai e una quantità di storie di coraggio, eroismo o semplice umanità che nessuno ricorderà mai.



Furono trucidati a colpi di machete e armi da fuoco comunità intere non solo di Tutsi ma anche di Hutu e Twa moderati che si rifiutarono di schierarsi. Il tutto sotto gli occhi della comunità internazionale che si comportò con una disonestà politica a dir poco brutale (una vasta bibliografia accompagna questa tragedia, Tra tutti: R. Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli 2000; J. Hatzfeld, A colpi di machete, vincitore del Prix Femina 2003, Bompiani 2003; Il sale della terra, film di W. Wenders e J.R. Salgado 2014).

A ridosso della fine del genocidio, nell’agosto del 1994, la Fondazione Avsi spedì in Rwanda una pediatra (Lucia Castelli), un assistente sociale (Anne Devreux) e uno psichiatra (Giovanni Galli) per soccorrere i bambini sopravvissuti ai massacri. Inizia così l’avventura di Avsi nel paese: nell’orfanotrofio dei Padri Rogazionisti che da un centinaio di bambini, in pochi mesi si ritrovarono ad accoglierne circa 800; nel centro per handicappati di Gatagara dove si rifugiarono altri orfani e nell’ospedale di Nyanza preso d’assalto dalle vittime scampate a quei cento giorni di mattanza. Quest’anno si è celebrato il 25° anniversario di Avsi in Rwanda con una cerimonia bellissima alla quale era presente la pediatra Lucia Castelli che ha potuto riabbracciare molti di quei bambini che aveva curato 25 anni fa e che oggi sono diventati uomini e donne adulti consapevoli del proprio valore e responsabili del proprio futuro.

Questa di Avsi Rwanda è una storia di successo. Oggi lo staff, che conta ben 42 persone, è tutto africano e fa capo alla carismatica figura di Lorette Birara che segue e implementa progetti interessantissimi, presenti in quasi tutti i 30 distretti in cui è suddiviso il territorio rwandese, con la determinazione di chi vuole cambiare il destino del suo paese, un destino che 25 anni fa sembrava maledetto per sempre.

Entro la fine dell’anno, Avsi sarà accreditata a tutti gli effetti come Ong rwandese e questo le permetterà di accedere e partecipare direttamente ai progetti governativi. Il presidente Kagame infatti, nella sua ottica di modernizzazione del paese, ha voluto affrancare il paese dagli aiuti internazionali e non permette a nessuna Ong straniera di operare in autonomia. Egli sostiene con grande forza la formazione e la tutela dell’infanzia. Infatti, nel 2011 il ministero dell’Educazione ha elaborato una strategia chiamata Early Childhood Development Policy, che promuove centri per bambini vulnerabili da 0 a 6 anni che devono rispondere a standard specifici su 5 punti: nutrizione, protezione, igiene e salute, educazione ed educazione dei genitori. È un programma molto esteso che vuole raggiungere anche le zone più remote. Il governo si serve del personale qualificato delle Ong nazionali, forma a sua volta del personale e supervisiona le attività attraverso i capi di distretto.

È quello che accade nel distretto di Karongi a 2000 metri di altitudine. Lì si estendono mille meravigliosi e verdissimi ettari di tè e si è formata una comunità poverissima che ruota attorno alle raccoglitrici di foglie di tè e che conta circa 200 bambini. Avsi, attraverso Unicef Rwanda, ha avviato un centro Ecd per proteggere questi bambini altrimenti lasciati a se stessi mentre le mamme lavorano nei campi. Lo stesso consorzio, proprietario delle piantagioni, ha messo a disposizione il terreno sul quale insiste il centro e paga la presenza di uno degli educatori. Da quando la scuola è in funzione, le donne lavorano più serene e la produzione è aumentata.

Nel distretto di Gicumbi, Avsi è arrivata nel 2008 con un progetto di fornitura di acqua,. Oggi c’è una grande scuola, un centro per ragazze madri, dei laboratori di artigianato e mille altre attività tra le quali non ultimo il sostegno di ben 302 famiglie. Il metodo d’intervento è denominato PACOME e si traduce in un approccio integrato che parte dal bambino coinvolgendo però anche i genitori, la scuola e la comunità comprese le istituzioni locali.

Sono passati 25 anni dal genocidio, da quando radio Milles Collines chiamava a raccolta gli Hutu per eliminare gli inyenzi, ossia gli “scarafaggi” Tutsi, e da quando Kagame e le sue truppe occuparono Kigali. Da allora il paese ha fatto passi da gigante: il tasso di povertà è ancora al 38% ma la scolarizzazione primaria, anche se lacunosa, arriva al 90%. Non esistono più divisioni etniche, parole come Hutu e Tutsi sono vietate e i luoghi dove sono avvenuti i massacri sono oggi dei memoriali che vengono visitati dalle scolaresche per non dimenticare.

Kagame è un personaggio controverso, accusato di aver strumentalizzato il genocidio, di aver represso in modo violentissimo gli Hutu, di aver invaso i campi profughi nel Congo e sterminato indistintamente milizie e civili. Oggi gli viene riconosciuto lo sforzo di portare il paese allo sviluppo. È vietato camminare scalzi per la strada, è vietato l’accattonaggio, le ruspe hanno raso al suolo gli slums attorno alla capitale ed è stato introdotto l’Umuganda: una volta al mese viene dedicata un’intera giornata alla pulizia e manutenzione degli spazi comuni. Tutti i cittadini, anche i vecchi e i bambini, sono obbligati a partecipare, pena grosse multe. L’acqua potabile è stata privatizzata e si paga: nelle zone rurali ci sono pozzi e fontane gestiti dal governo che distribuisce le taniche la cui grandezza dipende dall’età (dai 2 ai 4 anni si trasportano 0,25 l e poi si aumenta via via di 0,25 l fino ad arrivare ai 15 anni quando si è considerati adulti e si hanno taniche da 10/15 litri).

Due anni fa, come presidente dell’Unione Africana, Kagame ha lanciato la libera circolazione di capitali e merci (su modello dell’Unione Europea). Ha limitato le importazioni dei prodotti stranieri e dei vestiti di seconda mano per incrementare la produzione dei prodotti locali. Il Rwanda punta ad essere il primo paese africano plastic free. Per questo motivo, per esempio, all’aeroporto di Addis Abeba i viaggiatori per Kigali sono obbligati a liberarsi dei sacchetti di plastica prima di salire in aereo. E risulta essere il paese meno corrotto del continente africano oltre che vantare il parlamento con la maggiore presenza femminile al mondo. Infine, ciò che non è detto ma che è fortemente percepito, è che non viene tollerata nessuna critica o dissenso politico.

Il popolo rwandese è un popolo profondamente ferito e ancora sotto shock che ha bisogno di pace e stabilità per ritrovare se stesso e fare i conti con la propria terribile storia ed è per questo che Kagame ha un largo consenso. Lo sviluppo del paese è innegabile, c’è e si vede. Il Rwanda oggi viene definito la Svizzera dell’Africa, ma il prezzo di tutto questo non è dato conoscerlo e c’è chi pensa che nel momento in cui il meccanismo di sviluppo dovesse incepparsi, riemergeranno i contrasti.