In linea teorica i numeri a cui guardare sarebbero 315 alla Camera (dove un seggio di deputato è vacante) e 161 al Senato. Le soglie della maggioranza assoluta sarebbero quelle. Raggiungerle in entrambi i rami del parlamento certificherebbe la buona salute della maggioranza, nonostante l’abbandono da parte di Italia viva. Certo, a Conte per avere la fiducia basta avere un voto più degli avversari, e con l’astensione prospettata da Renzi il risultato appare scontato. Ma accontentarsi di un simile risultato significa trovarsi a gestire un problema politico grande come una casa: un governo di minoranza nella fase più delicata della storia repubblicana. L’esatto opposto di quell’esecutivo solido e sostenuto da una maggioranza ben definita che il Quirinale aveva chiesto.
L’operazione “responsabili” (imbellettata dall’essere ribattezzata “costruttori”, rubando il termine a Mattarella) non ha dato, in apparenza, i risultati che il premier si attendeva. E, di fronte alla prospettiva di avere al Senato una fiducia stentata con 152 o 153 voti, o giù di lì, era circolata l’ipotesi (molto “Prima Repubblica”) che il premier potesse salire al Quirinale a dimettersi dopo aver parlato questa mattina alla Camera, prima che i deputati cominciassero a votare. Conte, si diceva, poteva negoziare questo passaggio con il reincarico, e poi ricostruire con calma coalizione e compagine di governo. Ipotesi di buonsenso, che sembra però essersi scontrata con la ferma volontà dell’interessato di non fare passi indietro, oltre a un’ormai evidente ruggine personale nei confronti di Renzi.
Nelle mosse di Palazzo Chigi si intravede la paura del premier di essere messo fuori dai giochi un minuto dopo essere uscito dallo studio del Capo dello Stato. E forse anche il desiderio di non cedere sull’unico punto su cui il senatore di Scandicci è sembrato irremovibile: dimissioni del governo come precondizione per il rilancio. Con il passare delle ore è sembrata prevalere, quindi, la determinazione a tirare diritto: andare alla conta, incassare una fiducia risicata e poi lavorare per allargare la maggioranza.
I tre partiti che sorreggono Conte, nonostante qualche perplessità, alla fine hanno deciso di fare quadrato su questa linea, senza per questo fermare la ricerca di voti. Solo quando si aprirà la “chiama” nelle aule parlamentari si vedranno i risultati. Sinora il carniere della caccia ai responsabili è scarso, e si limita ai deputati Michela Rostan (ex Leu) e Vito De Filippo, che hanno deciso di abbandonare Italia viva e di continuare a sostenere il governo. Adesioni significative, ma poco utili, perché è al Senato che il piatto piange. E l’appello serale del ministro Boccia ai parlamentari ex Pd perché si ricordino chi li ha eletti in parlamento dimostra che il pallottoliere non lascia affatto tranquilla la maggioranza.
Sotto pressione in particolare la pattuglia parlamentare dell’Udc, piccola ma due volte significativa, sia per i tre voti in Senato, sia per il progetto di dare vita a un nuovo raggruppamento centrista, che con l’adesione di Cesa & c. si troverebbe direttamente collegato con il Partito Popolare Europeo.
Comunque vada a finire la vicenda di questo corteggiamento (e di altri simili a un paio di senatori renziani), restano almeno due elementi. Il primo è un indecoroso “mercato delle vacche” in cui, oltre al ritorno di Mastella, si sono rincorse persino voci di coinvolgimento dell’apparato dei servizi segreti. L’ha riportata un quotidiano prestigioso come La Stampa, e Palazzo Chigi ha dovuto smentire con forza un’indiscrezione tanto imbarazzante. Il secondo elemento è la solidità dell’operazione politica che potrebbe scaturire da questa crisi, i dubbi su quanto potrebbe durare, per di più con diversi renziani alla guida di alcune nevralgiche commissioni parlamentari.
Mattarella non può costringere alle dimissioni un premier che conservi la fiducia delle Camere, anche se certo si attendeva un’operazione politica assai più robusta. A tutt’altra partita si potrebbe assistere se qualcosa andasse storto, e Conte dovesse farsi da parte. Allora si aprirebbe la possibilità di un governo sostenuto dalla stessa maggioranza, ma con un premier differente dall’attuale. L’ipotesi elezioni resta sullo sfondo, ma in realtà nessuno la ritiene concreta.